Tu sei un antropologo, oggi però ti occupi di progettazione urbana, e militi contro la demolizione delle case palestinesi. Qual è stato il tuo percorso?
Io sono originario degli Usa, dello stesso paesino in cui è nato Bob Dylan, anche se oramai vivo in Israele da 30 anni. Sono diventato antropologo negli anni ’60, quando lavoro e carriera erano considerate delle parolacce, perché noi pensavamo a come cambiare il mondo e quindi le parole chiave erano impegno e responsabilità.
Per me l’antropologia allora era perfetta, perché da una parte permette di non stare seduto in una stanza: devi stare con la gente, incontrarla, parlarci; dall’altra, ha anche un aspetto molto intellettuale, è una professione in cui mentre incontri e parli con la gente, devi continuare a domandarti: “Perché si comportano così?”, “Cosa diavolo sta accadendo qui?”.
L’antropologia poi chiama sempre in causa la responsabilità. Perché se io trascorro un anno o alcuni anni con la gente dei quartieri disagiati negli Usa, o con i palestinesi oppressi, o nel Terzo Mondo, la domanda diventa: cosa me ne faccio di queste mie conoscenze?
Per questo io oggi vedo il mio impegno nel Comitato contro la demolizione delle case, contro l’occupazione israeliana, come parte del mio lavoro di antropologo. C’è una perfetta continuità.
Anche nella pianificazione territoriale poi c’è un miscuglio di politica e antropologia.
L’ Icahd ha da poco tenuto una conferenza a Gerusalemme con i pianificatori sul tema: “Progettazione territoriale e diritti umani”. Ebbene, uno dei temi emersi in quella conferenza è stata l’idea che la pianificazione è un’ottima copertura per un’agenda politica, perché suona molto tecnica, professionale, con un gergo particolare, per cui riesci a perseguire obiettivi politici molto facilmente sfruttando appunto la sua cosiddetta “neutralità”.
Puoi fare qualche esempio?
Possiamo partire dal fatto che Israele ha contrassegnato il West Bank come zona agricola. Ecco, questo significa che i palestinesi non possono ottenere permessi per la costruzione di case, se non in qualche raro caso. Perché la legge stabilisce che è terreno adibito ad agricoltura e non all’edificazione.
Allora, è evidente che lo scopo di questi piani è tutto politico; è volto a confinare i 3 milioni di palestinesi che vivono nei territori occupati in piccole isole, lasciando così la maggior parte del territorio libero per gli insediamenti degli israeliani.
Così se tu chiedi al governo israeliano: “Ma perché demolite queste case?” (8000 case di palestinesi sono state demolite dal 1967, da quando è iniziata l’occupazione), ecco che loro risponderanno: “Stiamo mettendo in atto il progetto di pianificazione”. Insomma suona tutto molto ragionevole.
Invece è molto più complicato. Tra l’altro la legge che definisce quella zona come “agricola” è del 1942, è un piano del protettorato britannico. Israele si è limitato a riprenderlo e a usarlo come base legale per questa azione che è tutta politica. Cioè ha legittimato la propria azione con un piano di 60 anni fa, quando nel West Bank c’era un quarto della popolazione attuale, non più di 250.000 persone. Cosa poteva esserci di meglio di un piano legale, formale, addirittura degli inglesi, che congela il West Bank al 1942? Ecco perché la progettazione è così efficace, perché crea una struttura di legalità che rende il tutto presentabile come semplice atto amministrativo.
Così il 73% del West Bank è stato ridefinito ed è diventato “terra dello stato”. E su quella terra lo stato può fare ciò che vuole. E’ veramente straordinario: tu hai un palestinese che vive lì e che se aggiunge un bagno alla sua casa, arriva l’esercito a demolirla; e accanto, dall’altra parte della strada, ci sono 40.000 ebrei israeliani che vivono in bellissimi appartamenti, con la luce, tutte le infrastrutture, parchi, scuole, una vera e propria città in quella stessa terra in cui i palestinesi, in base al piano del 1942, non possono costruire niente!
Oggi abbiamo 5 milioni di ebrei israeliani che vivono in Israele, e un milione di arabi con cittadinanza israeliana. Poi ci sono 2 milioni di palestinesi che vivono nei territori occupati del West Bank, un milione che vive a Gaza e 4 milioni di profughi palestinesi che vivono s ...[continua]
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