Alfonso Berardinelli è stato docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Venezia dal 1983 al 1995, ha svolto attività di critico militante su diverse riviste, a cominciare dai Quaderni Piacentini, della cui direzione ha fatto parte dal 1975 fino alla chiusura nel 1984. Con Piergiorgio Bellocchio ha iniziato, nel 1985, la stesura di Diario, opera letteraria in forma di rivista. Tra le sue ultime pubblicazioni L’eroe che pensa (Einaudi, 1997); Nel paese dei balocchi. La politica vista da chi non la fa (Donzelli, 2001) e La forma del saggio (Marsilio, 2002).
Chissà che cos’erano veramente i Quaderni Piacentini. Di questa rivista circola ormai da tempo un’immagine assai confusa: i giornalisti oggi in attività sono troppo giovani per averla potuta leggere; per altri più anziani la rivista era come il fumo negli occhi, se ne sentivano offesi, non capivano quanta moderazione e distanza critica ci fosse in quell’apparente estremismo; altri, i marxisti ortodossi di allora, gli ideologi accaniti e davvero convinti che una rivoluzione comunista, operaia, fosse alle porte, consideravano troppo eclettica o sofisticata o politicamente impotente o radical liberale quella rivista diretta da intellettuali poco comunisti e poco coinvolti, nonostante le buone intenzioni, nella prassi militante. Oggi arrivano a ricordare solo qualche articolo maoista per poterla condannare più facilmente, assimilandola al peggiore dogmatismo. In realtà, la sinologa del gruppo, Edoarda Masi, è stata nonostante tutto la più intelligente commentatrice italiana di quella che allora si credeva fosse la linea di Mao; in molte cose sbagliava, tuttavia sarebbe giusto ricordare che per almeno una decina di anni ebbero più o meno le stesse convinzioni parecchi tra i più competenti sinologi di sinistra del mondo. Nei Quaderni Piacentini tutte le forme ortodosse di marxismo (leninismo, trotzchismo, maoismo, operaismo) erano marginali e per lo più guardate con una certa ironia e diffidenza. Quando nel 1973 cominciai a collaborare alla rivista e poi, due anni più tardi, mi fu proposto di entrare nel comitato direttivo, mi sentivo un intruso. Tuttavia, venendo da Roma, dove dominavano ipermarxisti come Lucio Colletti e Alberto Asor Rosa, arrivato a Piacenza in quelle riunioni mi sembrò finalmente di respirare. Il gruppo era costituito da persone che si conoscevano e collaboravano da anni. Io passai repentinamente dalla posizione comoda del lettore devoto a quella di collaboratore attivo e poi di membro del comitato direttivo. Alcuni saggi pubblicati dalla rivista negli anni ‘60 li avevo addirittura studiati, letti e discussi in piccoli gruppi di amici o militanti; ero allora il più giovane del comitato direttivo e mi sembrava di poter solo imparare; inoltre ero molto curioso di osservare da vicino i rapporti, per altro civilissimi, amichevoli, ma non sempre facili, tra intellettuali così diversi. Che cos’avevano in comune Giovanni Jervis e Michele Salvati, la sociologia politica francofortese di Carlo Donolo e Federico Stame e il fervido empirismo enciclopedico di Francesco Ciafaloni? C’era poi Fortini, che conoscevo meglio personalmente, che aveva ispirato la rivista fin dai suoi inizi, ma che ora la guardava come si guarda un figlio indocile, deviante, esposto a tentazioni illuministiche e vitalistiche libertine. Dunque che cos’erano veramente i Quaderni Piacentini? Neppure chi ha fondato e diretto la rivista riesce a darne una definizione esauriente e stabile. Piergiorgio Bellocchio, che la fondò nel 1962 e la diresse con l’aiuto determinante di Grazia Cherchi e di Goffredo Fofi fino a quando non si formò una direzione più ampia, sembra sempre un po’ a disagio quando gli si chiede di riassumerne la storia. Lui inventò qualcosa che poi, nel 1968, gli sfuggì di mano, prese una piega diversa, si assunse e fu portata ad assumersi responsabilità politiche maggiori, divenendo una sorta di organo informale, semiufficiale e comunque abbastanza influente di quello che allora si chiamava il movimento. L’inizio aveva riunito collaboratori più anziani, poeti, critici, teorici marxisti, da Fortini a Sebastiano Timpanaro, da Cases a Renato Solmi, il primo e migliore traduttore di Adorno e Benjamin, nonché poeti come Giudici e Giancarlo Majorino, uno psicanalista teorico con interessi vastissimi come Elvio Facchinelli. Col 1968, per una decina di anni, fu la volta di Don ...[continua]
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