Da qualche parte nella sua opera, René Char ha scritto che bisogna imparare a uccidere l’animale. Forse è proprio l’assenza di questo sapere elementare ciò che dà al nostro quotidiano e industriale aver a che fare con l’animale il suo aspetto di orrore. Non sappiamo più uccidere gli animali, anche se tecnicamente questo ci riesce benissimo e su una scala impensabile rispetto al passato. Ne fa fede il fatto che per lo più le nostre orecchie non sono capaci di ascoltare il grido di dolore lancinante dell’animale vessato, torturato, massacrato. Questo resta semmai un brusio di sottofondo che non disturba affatto la nostra quotidianità indaffarata. Il dolore assoluto dell’animale sacrificato alle esigenze del nostro benessere è stato rimosso. Come tutto ciò che è stato rimosso esso può allora ritornare a funestarci, ma, se ciò avviene, avviene in forma mascherata, irriconoscibile. E’ il caso, ad esempio, di certe forme esasperate di animalismo, più simili a nevrosi collettive che ad un’autentica comprensione del problema. L’uccisione dell’animale è in questi casi assunto, molto semplicemente, come il male in quanto tale, qualcosa che deve essere eliminato. Si chiudono insomma ancora gli occhi, si cerca un angolino appartato dove far riposare la propria coscienza stanca di tanto sangue innocente, si fugge ciò che è più essenziale: la comprensione di quel dolore, l’esposizione ad esso. Cominciamo allora a capire Char. L’uccisione dell’animale, egli dice, non è un fatto. Uccidere l’animale non è un problema tecnico, non si tratta di essere più o meno “umani” nella sua eliminazione (si è facili profeti affermando che prima o poi la tecnica, anche per venire incontro alle esigenze di un pubblico di consumatori particolarmente inclini ai buoni sentimenti, escogiterà metodi di allevamento e di sterminio delicatissimi e rispettosi della “dignità” dell’animale). L’uccisione dell’animale, egli afferma, è un senso, un destino, quale che sia il nostro atteggiamento empirico nei confronti dell’assunzione di alimenti di origine animale. Esso misura la collocazione dell’uomo nel cosmo naturale, il suo ambito di appartenenza. L’uccisione dell’animale, come ben sanno i cosiddetti popoli “primitivi”, rivela all’uomo il suo ethos, vale a dire la sua dimora, il luogo del suo soggiorno sulla terra in quanto mortale. Fare dell’uccisione dell’animale, e più in generale dello sfruttamento della natura, un senso non significa allora ignorare il dolore che tutto questo comporta. Questo dolore, anzi, è finalmente visto in piena coscienza. Solo a questa condizione, infatti, la colpa -una colpa evidentemente più vecchia di qualsiasi colpa “morale”, una colpa che coincide con il fatto stesso della esistenza mortale- è costantemente presente allo sguardo. Per questo Char scrive che bisogna imparare la difficile arte di uccidere l’animale. Ciò che l’uomo della tecnica e dello sviluppo illimitato come il suo strenuo e astratto oppositore fondamentalista hanno dimenticato è proprio la difficoltà di quest’arte. Uccidere l’animale è difficile perché l’animale è sacro. Occorrono cautela, prudenza, ritualità, rispetto. Ben lo sapeva il sacerdote che officiava gli olocausti animali (in Grecia solo la carne dell’animale sacrificato poteva essere utilizzata poi come alimento), ben lo sa il torero quando fissa negli occhi il suo degno avversario.
Noi, con tutto il nostro amore per gli animali e con tutte le nostre premure per le loro “inutili” sofferenze (dunque l’”utilità” può giustificare la sofferenza?), non lo sappiamo più. Per noi l’uccisione dell’animale è un fatto economico, un fatto alimentare e, infine, last but not least, una questione di coscienza, qualcosa insomma di pertinenza della morale: non una immagine di senso, una esperienza nella quale collocarci e dalla quale imparare. Non siamo capaci di quello sguardo semplicissimo e antico che nella più arcaica delle tecniche -la messa a morte dell’animale- scorgeva un gesto di valenza cosmologica. Esperire la ferita che quel gesto originario comporta è imparare ad uccidere l’animale.
Rocco Ronchi