Poche città al mondo si sono identificate con le loro costruzioni più belle come Mostar col suo Ponte, che chiamava chissà perché “Vecchio”, nonostante fosse lui più giovanile e immacolato di tutti gli altri ponti della città. Per la “funzione” era come tutti gli altri ponti, un loro fratello, ma, per l’età, era un bisnonno. Tutti i fratelli minori hanno fatto scomparire davanti agli occhi del più grande e amato. Lui, Stari Most, li ha accompagnati con tristezza. E’ grande giustizia ma scarsa consolazione che siano tutti insieme nell’abbraccio dell’Unica che hanno amato. I ponti sono i più fedeli amanti sotto la cupola celeste.
I ponti si fanno per non dovere compiere un lungo percorso, scorciatoia per arrivare prima dove si voglia andare. Con loro le sponde si danno la mano e si maritano. I ponti sono le anime pietrificate degli arcobaleni nati e morti sulle acque. Nessuna delle costruzioni pensate con la testa e col cuore dell’uomo ha tanta “anima” quanto il ponte. Nessuna gli è tanto vicina. Il ponte è dell’uomo il cugino più prossimo. I cugini sono tanti e a volte si somigliano molto gli uni agli altri. Lui somigliava solo a se stesso o alla curva lunare che si rispecchia nelle acque di Neretva nelle notti silenziose. Tutti i ponti, con le radici sanguinanti di cemento o ferro, si annidano e crescono sulle rive. Solo Stari Most è cresciuto e vissuto nel verso:
“Questo ponte è come il semicerchio dell’arcobaleno,
Esiste qualcosa di simile al mondo, Dio mio?”
Così è scritto sulla prima pietra posta alle fondamenta nel 1566. Questo ponte lo portò, nella testa e nel cuore, Hairudin, costruttore di ponti ma poeta nell’essenza. Lo portò dalla Persia. Percorse terra e mari fino a farsi calli ai piedi, attraversando montagne e bagnandosi nei fiumi. E soltanto là, tra le sponde scoscese di Hum e Velez, sulla selvaggia e misteriosa acqua di Neretva, decise di dare carne al suo sogno. Per questo Stari Most non è solo strada di pietra sull’acqua. E’ un sonetto di pietra bianca e tagliata, chiamata “Tenelia”(3), sulla Neretva. Più poesia che ponte. La sera prima che il ponte si liberasse e fosse consegnato festosamente alla vista e all’uso degli abitanti, quell’anno 1566, Hairudin, segretamente e senza ritorno, lasciò la città. Il ponte non vedrà mai. Lo spaventò forse l’incontro con la bellezza che aveva creato, la paura che quel sogno, troppo alto e troppo snello, svanisse nel fiume. O forse era geloso dell’opera sua, che vivesse più a lungo di lui. Non si sa. Quanti sono venuti dopo e hanno guardato Stari Most, sono rimasti abbagliati dalla bellezza. I poeti l’hanno cantato, i narratori narrato, pittori dipinto, la gente, come la gente, vi ha camminato. Per primo ne ha scritto il viaggiatore e scrittore Evlia Celebia: “Ecco, si sappia, che io, umile e povero schiavo di Dio, Evlia, visti e percorsi sedici regni, un così alto ponte, che sovrasta due rocche guizzanti verso il cielo, mai ho visto.” L’ameranno e proveranno stupore i viaggiatori e passanti nel corso dei secoli. Nell’Ottocento Bozur e Somet, scrittori. Un secolo prima, nel viaggio verso l’Oriente, il francese Bulè scriveva: «Per costruzione è più audace ed ampio del Ponte Rialto a Venezia, nonostante il ponte di Venezia sia da tutti considera ...[continua]
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