Il giornalismo italiano online è molto giovane. Le esperienze delle nuove testate pubblicate solo in formato digitale sono ancora poco numerose e spesso sconosciute al grande pubblico. Anche in questo, come in altri settori, siamo molto in ritardo rispetto ad altri paesi. Ma prima di aprire questa discussione, lasciatemi dire qualche parola sulla crisi dei giornali cartacei.
Di questo problema in Italia quasi non si parla. La discussione resta all’interno delle redazioni, nel mondo ovattato dei giornalisti. Eppure si tratta di un problema che è strettamente legato con la salute della democrazia.
La crisi dei giornali non è una novità. In altri paesi se ne discute fin dall’inizio degli anni Novanta, quando si cominciò a intuire che l’avvento del web avrebbe messo in crisi i modelli di business della carta stampata. In realtà i segni pesanti della crisi hanno cominciato a manifestarsi dopo il 2000, e solo dopo il 2005 questi segnali sono diventati veramente allarmanti. Bastano pochi dati per avere una dimensione del problema. Negli Stati Uniti, negli ultimi tre-quattro anni, sono morti centosessantasei giornali locali, il settimanale Newsweek è stato venduto per un dollaro, oltre 15 mila giornalisti hanno perso il lavoro. In Gran Bretagna sono scomparsi oltre un centinaio di quotidiani locali e il quotidiano The Independent è stato ceduto per una sterlina.
In Italia questo fenomeno non si è verificato. Nel nostro paese i quotidiani sono pochi e poco venduti. E alcune caratteristiche del nostro sistema aiutano a mimetizzare la crisi: i giornalisti non perdono il lavoro ma vengono prepensionati, molti giornali godono di consistenti aiuti pubblici, i giornali più importanti appartengono a imprenditori (o a lobby) per i quali i giornali interessano più per il peso politico delle testate che per i loro profitti. Spesso conviene tenerli in vita, rimettendoci dei soldi, perché si ritiene che il rapporto costi-benefici sia comunque conveniente.
Ma i dati in Italia sono peggiori che altrove. Negli Stati Uniti, nel corso del decennio appena concluso, le copie vendute sono scese del 14%. In Italia del 25%: erano sei milioni nel 2000, sono diventate 4,5 milioni nel 2010. Se togliamo i tre grandi giornali sportivi italiani (Gazzetta dello Sport, Corriere dello Sport e Tuttosport) che vendono complessivamente circa 450.000 copie, siamo intorno ai quattro milioni di copie vendute di giornali generalisti. Il Sole 24 Ore ha perso il 35%, il Corriere della Sera il 25%, la Repubblica il 27%, il Messaggero il 33%.
E la diminuzione non sembra arrestarsi. Il Censis, in un recente rapporto, ha scritto che l’influenza della carta stampata sull’opinione pubblica italiana sta diventando "marginale”.
Come cambia il giornalismo per effetto di questa crisi? Anche in questo caso, alcuni dati illuminanti vengono dagli Stati Uniti. Meno giornalisti vuol dire meno inchieste e meno notizie: nel 2009 sono stati pubblicati 870.000 articoli in meno rispetto all’anno precedente, secondo un’inchiesta del Pew Research. Nelle città ci sono meno cronisti che si occupano della cronaca locale; a livello internazionale ci sono meno corrispondenti. Sono i giornali locali (come il Los Angeles Times e il Chicago Tribune) a soffrire di più. Erano grandi giornali nazionali con molti corrispondenti all’estero, sono diventati quotidiani locali. Sta accadendo anche in Italia dove ad andare peggio sono storiche testate regionali come il Messaggero e il Secolo XIX.
Se il vecchio modello di business dei giornali viene meno, se i giornali vedono di anno in anno calare il fatturato legato alle vendite e alla pubblicità, allora cominciano a prepensionare i giornalisti, a licenziare i collaboratori, a ridimensionare il formato, a eliminare sezioni e dorsi. Il giornale si ridimensiona, perde qualità e valore. Un altro esempio illuminante: negli Stati Uniti fino al 2005 venivano pubblicati ottantacinque inserti inserti scientifici dei quotidian ...[continua]
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