7 gennaio. Blasfemia
"Charlie Hebdo” è stato attaccato perché faceva della satira sull’Islam. Nel 2005, "Jyllands Posten”, quotidiano danese, pubblicò 12 vignette sul profeta Maometto. Alcune erano offensive, altre no. L’obiettivo era provocare un dibattito sull’autocensura. In effetti lo scopo venne raggiunto: le istituzioni danesi insediate in Medio Oriente vennero colpite e uno dei disegnatori fu aggredito. "Charlie Hebdo” raccolse in qualche modo il testimone di quella battaglia, continuando a pubblicare vignette. Almeno due musulmani si sono sentiti offesi al punto da fare un massacro.
L’Economist si interroga sul fatto se tutta una serie di tabù (non nominare il nome di Dio, non riprodurre immagini del profeta) debbano sopravvivere in un’epoca secolarizzata. Alcuni pensano di no. Resta il fatto che Irlanda e Polonia ad oggi prevedono il reato di blasfemia. La particolarità dell’Islam è che non vieta di nominare il nome di Dio, ma di rappresentarlo visivamente. Verosimilmente il divieto era volto a impedire fenomeni di idolatria, poi le cose hanno preso direzioni impreviste e così oggi non è permesso nemmeno corredare con immagini un libro per bambini sulla religione islamica. I musulmani dovrebbero ricordare che la libertà di espressione protegge anche loro da chi per esempio, come l’estremista olandese Geert Wilders, vorrebbe bandire il Corano. (economist.com)

8 gennaio. L’Algeria e Charlie Hebdo
"Un crimine indicibile”, così Omar Belhouchet, direttore di "El Watan”, maggior quotidiano algerino, inizia il suo editoriale di solidarietà con i colleghi francesi e di condanna senza appello di quanto avvenuto. Nessuna vignetta su Maometto, e neanche l'intervento francese in Iraq o il clima islamofobo in Francia possono lontanamente giustificare un tale atto barbaro. I giornalisti algerini sanno bene di cosa parlano. In Algeria, tra il 1993 e il 1998, circa settanta giornalisti vennero assassinati a sangue freddo dagli islamisti radicali. L’attentato contro "Charlie Hebdo” ha riesumato quel passato tragico e doloroso. Bisogna resistere, incoraggia Belhouchet, che in quegli anni bui fu minacciato di morte e scampò a un paio di attentati. "Attaccare la libertà di stampa -conclude Omar Belhouchet- vuol dire distruggere le fondamenta della democrazia. Questo crimine colpisce tutta la stampa mondiale. Ecco perché ci sentiamo così preoccupati. "Charlie Hebdo” deve continuare a esistere per sconfiggere questo progetto macabro e cupo di farla sparire”. (elwatan.com)

8 gennaio. Viva "Charlie Hebdo” (pixelato)
Da ieri le più grandi testate di tutto il mondo, nel nome della libertà d’informazione, rendono omaggio ai caduti nell’assalto al settimanale satirico francese "Charlie Hebdo” ripubblicando molte delle sue vignette più caustiche. Con molti "se” e "ma”. Ne ha parlato il sito "Slate.fr”. L’inglese Telegraph ha accompagnato la notizia sul proprio sito con la foto di una lettrice intenta a sfogliare un numero speciale di "Charlie Hebdo” intitolato "La vie de Mahomet”, oscurando l’immagine del profeta in copertina come si fa con i volti dei minori.
Un’altra foto apparsa sul sito del "Telegraph”  che ritrae il direttore Stéphane "Charb” Charbonnier con in mano una copia del giornale, è ritagliata in modo da non mostrarne la copertina. Anche il "New York Daily News” ha censurato l’immagine di Charbonnier davanti alla sede di "Charlie Hebdo” all’epoca dell’attentato incendiario del 2011, "pixelando” per l’occasione la copia che Charb tiene in mano. Anche la Associated Press e il "New York Times” hanno specificato che non diffonderanno senza censura le immagini delle vignette di "Charlie Hebdo”. La cosa si è ripetuta anche sui grandi network televisivi statunitensi, tra i quali Cnn e Nbc, che hanno scelto di non mostrare alcuna vignetta di "Charlie Hebdo”.
(Slate.fr)

11 gennaio. I ragazzi di Buttes-Chaumont
Correvano assieme o facevano ginnastica al parco pubblico nel nord-est di Parigi o si trovavano in qualche appartamento ad ascoltare un bidello autoproclamatosi imam, un uomo ritenuto troppo radicale da una moschea locale. Il gruppo di "Buttes-Chaumont” aveva attirato l’attenzione della polizia nel 2005, quando era emerso il suo ruolo nella filiera dell’arruolamento dei giovani che partivano per l’Iraq. I primi arresti sembravano aver portato allo scioglimento del gruppo. Ora si è capito che c’era una seconda tappa cruciale, la prigione, dove questi giovani venivano a contatto con i veri jihadisti e la loro rete. È stato infatti in prigione che Chérif Kouachi è entrato in contatto con lo jihadista franco-algerino coinvolto nell’attentato all’ambasciata americana di Parigi nel 2001. Sempre in prigione aveva conosciuto Amedy Coulibaly, l’uomo che ha ucciso i quattro ostaggi al supermercato kosher. Non si sa se il fratello Saïd Kouachi facesse parte del Buttes-Chaumont group, quello che è certo è che Chérif, nel 2008, quando uscì, era molto più radicale che nel 2005 quando era stato arrestato. Negli stessi anni, dal XIX arrondissement di Parigi, i giovani partivano per l’Iraq e chi tornava era un eroe. Fa impressione oggi scoprire che nel carcere di Fleury-Mérogis più di qualche detenuto avesse il poster di Bin Laden appeso, che oltre 200 ospiti fossero considerati da tenere sotto controllo e 95 classificati come "pericolosi”. In quegli stessi rapporti c’era anche scritto che una volta usciti alcuni sarebbero stati delle bombe a orologeria. (nytimes.com)

12 gennaio. La Cina e "Charlie Hebdo”
Secondo Xinhua, l’agenzia ufficiale del governo cinese, se il sanguinoso assalto alla redazione di "Charlie Hebdo” ci insegna qualcosa è la necessità di limitare la libertà di stampa. Ne ha parlato il "Wall Street Journal”. In un editoriale pubblicato in contemporanea con la grande "marcia repubblicana” tenutasi a Parigi, il direttore della redazione parigina di Xinhua, Ying Qiang, ha scritto in un comunicato che "Charlie Hebdo è una pubblicazione cruda e spietata nei suoi attacchi al sentimento religioso. Sembrano non aver capito che il mondo è variegato e che ci dovrebbero essere dei limiti alla libertà di stampa”.
A riprova della sua posizione, il direttore di Xinhua Francia ha citato le critiche allo stile dissacrante di "Charlie Hebdo” apparse negli editoriali di molti grandi quotidiani occidentali. Il Ministero degli Esteri cinese, interrogato in proposito, si è dissociato dal comunicato di Xinhua.

12 gennaio. La sinistra radicale francese e "Charlie”
In un articolo uscito il 20 novembre 2013 su "Le Monde”, "Charlie” si era ribellato all’accusa di islamofobia mossagli da certa sinistra radicale. L’islamofobo è un razzista. Un mangiapreti (di tutte le religioni), come era "Charlie”, è tutt’altra cosa. Com’è stato possibile, si chiede oggi Christophe Ramaux su "Le Monde”, che sia stata mossa un’accusa così ignobile ai giornalisti e disegnatori di "Charlie”? Perdipiù da sinistra? Com’è possibile che i dirigenti di Attac, Politis, Mediapart e altri abbiano alimentato questa infamia?
"Charlie” aveva posto una domanda precisa: perché, in nome di cosa, la religione musulmana andava risparmiata? Il fatto è che alcuni non concepiscono che i musulmani o gli immigrati, o i figli degli immigrati possano essere dei reazionari, finanche dei fascisti (così come succede per cattolici, protestanti, ebrei, ecc.). Dire questo alimenta l’islamofobia? Ma così si dimentica che sono i musulmani le prime vittime del fascismo verde.
L’altra argomentazione cara alla sinistra radicale è che sono le nostre società a produrre tutto questo: il capitalismo neoliberale crea disperazione sociale. Vero, ma non basta: pari condizioni sociali producono tragitti diversi. Le persone hanno autonomia di pensiero e giudizio e quindi sono responsabili. Negare la responsabilità agli integralisti è come considerarli inferiori. E poi non ci sarà anche un’estrema forma di narcisismo nel pensare che "noi” siamo responsabili "anche” di questo? Christophe Ramaux, autore dell’articolo, conclude auspicando che in futuro si possa condannare apertamente non solo il fascismo nero, ma anche quello verde e che in questa battaglia ci sia anche la sinistra radicale. Il testamento di "Charlie” affermava tragicamente: "forse siamo minoritari”. Beh, potremmo scoprire che si sbagliavano. (lemonde.fr)

13 gennaio. Siamo già a casa
A molti ebrei francesi, l’appello di Netanyhau a "tornare a casa” non è piaciuto affatto. Rabbi Menachem Margolin, direttore dell’European Jewish Association (Eja) si è detto amareggiato per le affermazioni del premier, da cui si aspettava piuttosto l’offerta di aiuto per rafforzare la sicurezza degli ebrei in Francia. Gli ebrei hanno il diritto di stare dove sono e se è vero che da qualche anno alcune migliaia di ebrei francesi scelgono di trasferirsi in Israele, è altrettanto vero che la maggioranza degli ebrei francesi non ci pensa affatto.
(haaretz.com)

14 gennaio. Più poliziotti che terroristi
Olivier Roy, in un lungo articolo uscito sull’edizione statunitense dell’"Huffington Post” , spiega come l’attentato a "Charlie Hebdo” abbia riaperto il dibattito sulla compatibilità tra Islam e Occidente. Ci sono due narrazioni al proposito, spiega Roy. Secondo la prima, la questione è l’Islam e il fatto che la fedeltà alla religione viene prima di quella alla nazione; una religione che peraltro non contempla critiche e accetta forme di violenza come la Jihad. Per chi aderisce a questa versione, l’unica soluzione è una riforma teologica che porti a un "buon” Islam: liberal, femminista e amico dei gay. Dall’altra parte, ci sono i musulmani, laici o credenti, sostenuti dalla sinistra multiculturale, che sostengono invece che il punto non è l’Islam, ma l’esclusione di questi giovani e quindi l’islamofobia.
Il problema è che entrambe le narrazioni presuppongono l’esistenza di una comunità musulmana di Francia, di cui i terroristi sarebbero una sorta di avanguardia.
In realtà, i giovani fondamentalisti intanto incarnano una rottura generazionale (tant’è che i loro genitori ora chiamano la polizia quando partono per la Siria) e non sono affatto coinvolti nella vita della comunità locale. Sono persone che si sono autoradicalizzate in Internet, non sono davvero interessati al mondo musulmano (ai palestinesi, per esempio). Vivono e si muovono ai margini. Al contrario, i musulmani francesi sono più integrati di quanto si creda. In quasi ogni attentato ha perso la vita un musulmano impegnato nelle forze dell’ordine. La cosa curiosa è che questi musulmani, anziché essere citati come esempio, sono dei "contro-esempi”, delle eccezioni. E invece la normalità sono proprio loro.
L’altro ritornello è che non condannano il terrorismo, ma in rete è pieno di condanne. Solo che siccome noi abbiamo deciso che sono una comunità vorremmo che anche la condanna fosse collettiva. Ma, torna a ripetere Roy, non sono una comunità, infatti non hanno una rappresentanza politica, ma neanche una rete di scuole o una grande moschea. Insomma, ci sarebbe questa buona notizia, che i musulmani di Francia stanno manifestando un "gallico” individualismo che li rende recalcitranti verso le forme comunitarie.
(huffingtonpost.com)

15 gennaio. I musulmani e le vignette
Molti musulmani che si sono sentiti offesi dalle vignette satiriche di "Charlie Hebdo”, sostengono che il punto non è la libertà di parola, ma quello che per loro è un insulto a una figura religiosa venerata da un quarto della popolazione mondiale. Quello che resta poco chiaro è da dove viene questo divieto delle rappresentazioni visive del profeta, a prescindere che l’immagine sia di contenuto offensivo o meno. Studiosi ed esperti di Corano sostengono che in realtà il testo non proibisce esplicitamente le immagini che ritraggono il profeta, tant’è che se la cosa è considerata un peccato in alcune correnti, in altre non lo è affatto. Di più, esiste una ricca storia di arte islamica che include raffigurazioni celebrative di Maometto. E tuttavia oggi ogni rappresentazione grafica può essere considerata blasfemia.
La sensibilità occidentale alle istanze dei musulmani non è univoca. A New York, una statua del profeta alta otto metri, opera dello scultore messicano Charles Albert Lopez, abbelliva il tribunale di Madison Square, dove è rimasta per più di 50 anni, fino al 1955 quando venne tolta. Nel 1977 una coalizione di organizzazioni musulmane chiese la rimozione del fregio presente alla Corte suprema dove sono raffigurati i 18 legislatori storici, tra cui Maometto. La richiesta non venne accolta e il fregio rimase intatto.
Nel 2008, la sezione di New York del Consiglio delle Relazioni Americano-islamiche ha chiesto all’editore Houghton Mifflin di rimuovere un’immagine di Maometto dal libro di testo "Western Civilizations: Ideas, Politics and Society”. Nell’edizione successiva, Maometto non c’era più. (nytimes.com)

15 gennaio. Parigi e Baga
Il presidente della Nigeria, Goodluck Jonathan, è stato tra i leader che la scorsa settimana ha condannato l’attentato contro "Charlie Hebdo”. Peccato che rispetto ai massacri compiuti nel suo paese sia invece stato muto.
Mentre era in corso la straordinaria mobilitazione parigina, usciva la notizia di oltre 2.000 persone uccise nella sola città di Baga, per mano di Boko Haram.
Il Presidente nigeriano si è scagliato contro l’azione "codarda e ignobile”, "il mostruoso assalto” alla libertà d’espressione. Nessuna espressione del genere si è però sentita rispetto alla città di Baga rasa al suolo. Ovviamente i due eventi sono diversi: l’attentato a Charlie Hebdo è stato vissuto com un "attacco alle libertà fondamentali”; la violenza in Nigeria viene invece presentata come l’ennesimo episodio di violenza tra comunità, un conflitto locale. (nytimes.com)

16 gennaio. 27 nigeriani al giorno
Yusuf Sarkin ha ricordi vaghi dell’orrore che ­l’ha costretto a scappare da Baga; quello che continua a ossessionarlo è il pensiero che a un certo punto ha lasciato andare la mano di suo figlio di dieci anni. Lo scorso 3 gennaio, assieme alla moglie e ai quattro figli si è unito alla folla in fuga da Boko Haram. Voleva raggiungere la spiaggia sul lago Ciad dove ci sono le baracche dei pescatori, ma una volta arrivato si è accorto che suo figlio non era al suo fianco. "Puoi immaginare quale livello di terrore può portarti a lasciare la mano di tuo figlio?!”, chiede disperato.
Nel 2014 sono morti in media 27 nigeriani al giorno per mano di Boko Haram. Nel silenzio generale.
"Sono cresciuto a Baga, i miei figli sono andati a scuola lì. Non riesco neanche a piangere”, dice inconsolabile Sarkin dal campo profughi di Maiduguri dove ha trovato riparo. Ogni giorno, assieme al suo vicino di casa si avvia verso i nuovi arrivati, alla ricerca dei bambini. Con speranze ogni giorno minori: "Nessuno li ha visti. Dobbiamo rassegnarci all’idea che siano tutti morti”. (theguardian.com)

16 gennaio. Genitori degli assassini
"Noi siamo ‘Charlie’. Ma siamo anche i genitori dei tre assassini” è il titolo di una lettera di alcuni insegnanti francesi, tradotta in italiano da Claudia Vago, che circola in rete.
"Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso. Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere… Quelli di ‘Charlie Hebdo’ ci facevano ridere; condividevamo i loro valori... Noi siamo ‘Charlie’ per questo. Ma proviamo per un attimo a cambiare il punto di vista e a guardarci come ci guardano i nostri studenti: siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte. Per noi è scontato che ‘La libertà che guida il popolo’ e ‘Candido’ fanno parte del patrimonio dell’umanità… molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti… È tempo che entrino nella Storia…”.
Ciò che più turba è che gli assassini parlino francese: "Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili… Noi, i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse, noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo, noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo, noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc. : noi siamo responsabili di questa situazione…”.
Di qui la vergogna e la collera. "Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?”. "Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio”.
Per concludere: "abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri. Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia. Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati fin qui, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, uguale, più fraterna. Possiamo appuntarci sul bavero "nous sommes Charlie”. Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto. Noi siamo anche i genitori dei tre assassini”.
(Catherine Robert, Isabelle Richer, Valérie Louys e Damien Boussard)