Sarebbe stato normale aspettarsi che la sentenza emessa dal Tribunale dell’Aja per la ex Jugoslavia, che ha condannato Radovan Karadzic all’ergastolo per i crimini commessi nel territorio della Bosnia Erzegovina nel periodo in cui era Presidente della Repubblica Srpska, incluso il genocidio, suscitasse una rinnovata condanna unanime, una sincera solidarietà per le vittime, una chiara presa di distanza dal crimine commesso in "nostro” o in "loro” nome. In Bosnia Erzegovina questo non è successo. Nemmeno in Serbia.
La sentenza contro Karadzic poteva essere un monito, un’occasione: contribuire a una catarsi e al ravvedimento di questa società così martoriata. Così non è stato. Ventiquattro anni dopo la fine della guerra, viviamo oggi in un paese in cui il presidente Milorad Dodik non riconosce lo stato di cui è presidente; che fa di tutto per impedire che si realizzi qualsivoglia sviluppo; che chiama "eroi” i criminali di guerra e che ha intitolato la Casa dello studente di Pale a Radovan Karadzic.
A leggere la maggior parte dei giornali e ad ascoltare le tv statali di Serbia e Repubblica Srpska, sembra che Karadzic sia stato condannato solo perché serbo; che la Nato sia intervenuta senza motivo; che il Kosovo voglia un’altra guerra. Lo stesso fatto che Anders Behring Breivik e Brenton Tarant, estremisti di destra, avessero come idoli Milosevic e Karadzic sarebbe una congiura dell’Occidente contro la Serbia...
I media diffondevano terribili menzogne anche prima dell’inizio della guerra nella ex Jugoslavia appoggiando fortemente quelli che volevano lo scontro. Ci sarà qualcuno a fermarli?
A Srebrenica, la città in cui si è perpetrato il genocidio che il mondo intero ricorda come il crimine più efferato avvenuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, il sindaco condanna la sentenza a Karadzic e lo denisce "eroe”.
A Srebrenica, alcuni giorni prima della pronuncia della sentenza di secondo grado, il sindaco, seduto in prima fila, ha appoggiato la promozione di un libro che, in modo mostruoso, falsifica quello che è successo a Srebrenica. Nel ventunesimo secolo, nella città che ha conosciuto il genocidio, dove le tracce della guerra sono ancora visibili e le ferite non ancora sanate, dobbiamo chiederci ad alta voce: "Com’è possibile!?”.
Si deve sperare che la generazione che sta crescendo avrà la forza di confrontarsi con il male che è avvenuto. Senza fare questo, non sarà possibile lasciare il passato nel passato, è la storia stessa che ce lo insegna. E tuttavia…
La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri) ha denunciato l’assenza di una volontà politica tesa alla costruzione di una società inclusiva in Bosnia; ha inoltre chiesto la rimozione dei simboli religiosi ed etnici dalle scuole, rinnovando le raccomandazioni del 2010. Purtroppo, la maggior parte delle scuole bosniache non contribuisce in alcun modo alla costruzione di un’istruzione di qualità, fondata sui principi di comprensione e tolleranza. Per quanto avessimo segretamente sperato che la sentenza a Radovan Karadzic contribuisse, almeno parzialmente, al processo di confronto con la verità, questo non è successo. Ciononostante, questa sentenza resta universalmente importante quale monito per tutti quelli che pensano di poter fare del male agli altri, senza essere condannati. Allo stesso modo, la documentazione raccolta dal Tribunale dell’Aja rimane di estrema importanza quale custode della verità -in attesa di tempi migliori. Dopo la sentenza a Karadzic, mi trovo di nuovo a riflettere su di lui, quel mio collega pieno di spirito, sempre pronto a fare scherzi e battute. Ci vedevamo spesso in occasione degli incontri tra psicoterapeuti della ex Jugoslavia che si tenevano a Plitvice in Croazia. L’ultima volta ci siamo incontrati poco prima che scoppiasse la guerra in quel paese... Non ha mai mostrato alcun pentimento per tutto il male che abbiamo conosciuto, di cui lui è uno dei principali responsabili.
*Psichiatra bosniaca originaria di Srebrenica, presidente dell’organizzazione Tuzlanska Amica (Tuzla).