Il mio contributo a questo congresso, come antico esponente di Magistratura democratica, sarà l’indicazione di nove massime deontologiche, soprattutto in materia di giustizia penale, suggeritemi proprio da quella pratica e da quella concezione e che vanno ben al di là delle ovvie regole stipulate nel codice deontologico elaborato dall’Associazione nazionale magistrati.

Prima. La consapevolezza del carattere "terribile” e "odioso” del potere giudiziario. La prima regola di deontologia giudiziaria democratica è forse la più sgradevole. Consiste nella consapevolezza, che sempre dovrebbe assistere qualunque giudice o pubblico ministero, che il potere giudiziario è un «potere terribile», come lo chiamò Montesquieu (De l’esprit des lois, 1748). Non dunque un potere buono o giusto, ma un potere «odioso», come scrisse Condorcet (Idées sur le despotisme, 1789); odioso perché, diversamente da qualunque altro pubblico potere -legislativo, politico o amministrativo- è un potere dell’uomo sull’uomo, che decide della libertà ed è perciò in grado di rovinare la vita delle persone sulle quali è esercitato. Dunque, un potere terribile e odioso -soprattutto quello penale- che solo le garanzie possono limitare, ma non annullare, e che è perciò tanto più legittimo quanto più è limitato dalle garanzie.
Seconda. La consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità processuale e perciò di un margine irriducibile di illegittimità dell’esercizio della giurisdizione. La seconda regola muove anch’essa da una consapevolezza che dovrebbe sempre assistere l’esercizio della giurisdizione: quella di un margine irriducibile di illegittimità del potere giudiziario, il quale può essere ridotto, ma non eliminato, dal rigoroso rispetto delle garanzie, prima tra tutte, come prosegue il passo sopra citato di Condorcet, la «stretta soggezione del giudice alla legge». Se è vero infatti che la legittimazione della giurisdizione si fonda sulla verità processuale accertata mediante l’applicazione della legge e che la verità processuale è sempre una verità relativa e approssimativa, opinabile in diritto e probabilistica in fatto, allora anche la legittimazione del potere giudiziario -come del resto la legittimazione di qualunque altro potere pubblico, a cominciare dalla rappresentatività dei poteri politici- è sempre, a sua volta, relativa e approssimativa. […]
Terza. Il valore del dubbio e la consapevolezza della permanente possibilità dell’errore in fatto e in diritto. La terza regola della deontologia giudiziaria riguarda l’accertamento della verità fattuale e consiste nel costume e nella pratica del dubbio conseguente a una terza consapevolezza: che la verità processuale fattuale non è mai una verità assoluta o oggettiva, ma è sempre, come dicevo, una verità probabilistica e che è sempre possibile l’errore. Intendo dire che le sole verità assolute sono quelle tautologiche della logica e della matematica, mentre in materia empirica -nelle scienze naturali, nella storiografia e quindi anche in qualunque indagine o accertamento processuale- la verità assoluta è irraggiungibile e per questo si richiede, quale debole surrogato di un’impossibile certezza oggettiva, quanto meno la certezza soggettiva, cioè il libero convincimento del giudice; che la verità fattuale non è oggetto di dimostrazioni, ma solo di conferme e di induzioni e che quindi, nonostante le prove e il convincimento, qualunque sentenza può essere sbagliata perché le cose potrebbero essersi svolte diversamente da quanto da essa ritenuto. È su questo tratto epistemologico del giudizio che si basa questa terza regola della deontologia giudiziaria: il valore del dubbio, il rifiuto di ogni arroganza cognitiva, la prudenza del giudizio -da cui il bel nome "giuris-prudenza”- come stile morale e intellettuale della pratica giudiziaria e in generale delle discipline giuridiche, la consapevolezza, in breve, che sempre è possibile l’errore, sia di fatto che di diritto. Per questo è inammissibile che un magistrato del pubblico ministero scriva un libro intitolato Io so a proposito di un processo in corso da lui stesso istruito.
Quarta. La disponibilità all’ascolto delle opposte ragioni e l’indifferente ricerca del vero. Di qui una quarta regola deontologica: la disponibilità dei giudici, ma anche dei pubblici ministeri, all’ascolto di tutte le diverse e opposte ragioni e l’esposizione alla confutazione e alla falsificazione, giuridica oltre che fattuale, delle ipotesi accusa ...[continua]

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