C’è qualcosa che davvero non funziona nella sinistra di oggigiorno (o, quantomeno, in ampie porzioni della sinistra -riconosco che esistono delle eccezioni). Parlandone astrattamente, ciò che c’è di sbagliato è il trionfo del progetto ideologico e degli slogan sugli interessi delle persone comuni. I vecchi di sinistra ricorderanno la distinzione fatta da Lenin tra la coscienza rivoluzionaria e la coscienza sindacale -tra i militanti che ambiscono alla creazione di una società comunista, costi quel che costi, e gli operai che, invece, vogliono solo paghe più alte e posti di lavoro decenti. Si può anche prendere in considerazione una ben più antica, ma simile, distinzione apparsa nell’episodio biblico dell’Esodo dall’Egitto, tra quei futuri sacerdoti che ambivano a coltivare una “nazione sacra” e gli israeliti comuni, che invece sognavano latte e miele. Vorrei ribaltare il valore che solitamente è conferito a questi due distinti gruppi tanto dagli autori biblici quanto da Lenin: a sinistra si commette un grave errore se ci si dimentica del valore del latte e del miele, dell’importanza dei salari migliori e del destino delle persone comuni.

Al momento, questo errore è rappresentato in modo esemplare da quei militanti di sinistra che difendono Hamas nel nome della “resistenza”, dell’anti-colonialismo e della liberazione (o che immaginano che il massacro sia lo strumento necessario per conseguire quest’ultima). Quei militanti assumono tale posizione senza alcun riguardo per gli israeliani assassinati il 7 ottobre e senza un vero interesse nei confronti del popolo di Gaza. So che tanti dei manifestanti delle proteste dei campus universitari sono mossi dal pensiero dei profughi allo stremo, dall’idea delle loro case devastate e dal numero sempre crescente di morti e feriti. Ma non sono queste le preoccupazioni che forgiano gli slogan che i manifestanti gridano nei cortei, né le politiche che essi promuovono.
Mentre qui negli Usa proseguivano le manifestazioni, il governo dell’Iran, principale sostenitore di Hamas, si dedicava a calare un pugno di ferro sulle donne e sulle ragazze iraniane che non cercano altro che un minimo di libertà. Eccolo, il modello della Palestina del futuro, quella cui i manifestanti non osano pensare. La verità è che non stanno dedicando neanche un pensiero ai palestinesi che da anni vivono sotto un regime, quello di Hamas, repressivo e brutale, né alle donne che finirebbero assoggettate alla legge islamista in quello che diventerebbe un vero e proprio “stato di Hamas” -per non parlare degli ebrei che verrebbero massacrati o costretti a fuggire se gli islamisti conseguissero il loro scopo dichiarato di annientare Israele.
Persino i cittadini di Gaza ormai allo stremo (che devono essere l’oggetto della discussione di una vera politica di sinistra) in gran parte dei dibattiti, in realtà, rappresentano poco più di un emblema della crudeltà israeliana. È come se fossero stati arruolati a forza per una finalità politica: la distruzione dello stato di Israele. I militanti di sinistra si rifiutano di fare i conti con la strategia militare di Hamas, che consiste nel posizionare i propri combattenti e i propri arsenali nel bel mezzo della popolazione civile. Né, a sinistra, si vuole riconoscere il ruolo dell’imponente rete di tunnel che Hamas ha edificato sotto Gaza, rete nella quale i suoi soldati trovano rifugio durante i bombardamenti israeliani, cui però ai civili è negato l’ingresso. Né mi pare esserci un grande interesse a sinistra nei confronti del futuro dei palestinesi dopo la guerra, o, più concretamente, su come potrebbe essere organizzato un governo di ricostruzione a Gaza.

Poco dopo il 7 ottobre, quando la contro-offensiva israeliana era appena cominciata, i sostenitori statunitensi di Hamas hanno deciso di portare la guerra in casa propria -forse nella convinzione che, in fin dei conti, tutto si determini qui negli Stati Uniti, la grande potenza imperiale. I campus universitari sono apparsi fin da subito  come il posto più disponibile per importare quel conflitto, ed ecco perché sono scaturite proteste che hanno visto contrapposti gli studenti e le forze di polizia in una versione distorta della guerra di classe (gli studenti a rappresentare la borghesia, la polizia nei panni della classe operaia). Ora gli argomenti principali di questa protesta sono la libertà di parola (per i manifestanti sicuramente, non necessariamente per gli altri), il ritiro degli investimenti dalle aziende che fanno affari con Israele e la fine della cooperazione accademica con gli atenei israeliani. L’obiettivo è rendere Israele un paese-paria, isolato e solo.
L’argomento più pressante per la sinistra americana, dunque, parrebbe essere il coinvolgimento statunitense nelle faccende israeliane e le nostre forniture belliche a Gerusalemme. È per questo che, sin dal principio, la sinistra americana ha domandato che gli Stati Uniti, dipinti come il burattinaio di Israele, imponessero un cessate-il-fuoco, e che questo fosse fatto valere in forza dell’immediata cessazione del sostegno militare americano.
Raramente si è fatto presente che ciò avrebbe comportato la vittoria di Hamas, ma in fondo era questa l’intenzione dei militanti che hanno dato il via alla protesta. Forse, in realtà, questi ultimi presagivano una doppia vittoria: porre fine al sionismo e al contempo accelerare il declino dell’impero americano.

In casa nostra, però, è in corso un’altra guerra, che non si rivolge al sostegno americano a Israele, ma ai sodali americani di Israele -vale a dire ai sionisti o agli ebrei presunti tali. Parliamo di atti che vanno dalle molestie di basso profilo all’esclusione da iniziative, e non (ancora) di violenza, ma certo è una pratica che pesca a piene mani dalla lunga storia dell’antisemitismo di sinistra e consuma molte delle energie della sinistra filo-Hamas. Anche se si tratta di un’ostilità su basi ideologiche e si rivolge a coloro che sono considerati bianchi privilegiati che sostengono il colonialismo israeliano, è al contempo scriteriata, una variante “di sinistra” di ignoranza praticata, ignoranza che comincia proprio nel non sapere un bel nulla della popolazione israeliana reale. Spesso l’impegno ideologico ad alta intensità si associa a politiche che portano con sé l’odio diretto verso chi è considerato “nemico della causa”. Sono abbastanza vecchio da ricordare le campagne di propaganda maoista contro i “cani da guardia dell’imperialismo”.
Ci sono dei precedenti di questo predominio dell’impegno ideologico rispetto al lavoro con la gente comune e vorrei dedicare la mia attenzione a un caso in particolare che mi ha visto direttamente coinvolto. Ma prima, una domanda: non è strano che questo trionfo ideologico sia definito “di sinistra”? Non è forse sempre stato lo scopo della sinistra, e onore di tanti dei suoi esponenti, lottare per la salvezza di uomini e donne in situazioni di difficoltà, e la capacità di costruire movimenti di massa capaci di includere chiunque desiderasse unirsi alla lotta? A volte sì, ma non sempre; l’ideologismo radicale e l’ambizione a realizzare un desiderio hanno sempre avuto una grande presa su intere generazioni di persone di sinistra.

Chi oggi è di sinistra e si trova estromesso dal potere spesso dà per scontato che le persone al potere siano ideologicamente fedeli e vivano secondo le dottrine che proclamano. Se l’Unione Sovietica si definiva “uno stato operaio”, le sue fabbriche erano nazionalizzate, le fattorie collettivizzate, beh, allora non importava null’altro -né che si imponesse una carestia sugli ucraini, né che si mandassero i dissidenti nei campi di lavoro in Siberia, né che venissero assassinati artisti e scrittori ebrei, né che i vecchi rivoluzionari venissero sottoposti a processi con accuse fasulle e poi giustiziati. Anzi, crimini del genere non possono essersi verificati! Qualunque persona di sinistra osasse criticare la brutalità del regime sovietico veniva definita “nemica dei lavoratori”, o “fascista sociale”, così come venivano etichettati i socialdemocratici tedeschi negli anni Trenta, in quello che è un vecchio esempio di “odio mirato”.
I fan di Hamas nell’America di oggi sono i discendenti di quelle persone di sinistra che difendevano lo stalinismo. Ma hanno anche predecessori più recenti.

Gli studenti che oggi manifestano nei nostri campus spesso invocano l’esempio del movimento pacifista degli anni Sessanta, e certo si tratta di un esempio molto calzante. In effetti, c’erano due diversi tipi di movimenti pacifisti, all’epoca, o quantomeno due movimenti motivati da spinte differenti. Certo, i due spesso si sovrapponevano, e talvolta finivano per collaborare, ma un gruppo era guidato dall’ideologia, mentre l’altro si sentiva guidato dal popolo. Uno pensava al problema dell’imperialismo americano, mentre l’altro era inorridito dalle immagini dei villaggi vietnamiti in fiamme; uno non vedeva l’ora di godersi il trionfo del comunismo, mentre l’altro, che restava comunque contrario alla guerra americana, era atterrito da una tale prospettiva.
Nel 1967 ero co-presidente del Cambridge Neighborhood Committee on Vietnam (Cncv), una posizione che mi ero conquistato prendendo troppo spesso la parola nei raduni dei fondatori del Comitato. La mia co-presidente non era un’esponente di sinistra “di professione”, né un’accademica, ma una giovane donna che lavorava nel cinema ed era risultata un manager estremamente competente nella gestione delle faccende quotidiane del Comitato. Io ero incaricato delle questioni politiche. L’attività prevalente era l’organizzazione comunitaria di iniziative pacifiste, quel tipo di attività modellate sul lavoro degli Students for a Democratic Society (Sds). I nostri attivisti, la maggior parte dei quali erano studenti, andavano di porta in porta a cercare chi volesse ospitare un raduno di quartiere dove poi noi saremmo andati a esporre la nostra posizione politica. Al contempo, raccoglievamo firme per far svolgere un referendum sulla guerra a Cambridge.

La nostra iniziativa politica era certo modesta, ma permetteva di far cooperare tra loro con facilità anche persone di vedute differenti. Non organizzavamo marce, per cui non dovevo preoccuparmi di impedire ai partecipanti di esporre bandiere dei vietcong, anche se tanti dei nostri le avrebbero fatte sventolare volentieri. In tutto il paese, in quegli anni, la comparsa di quelle bandiere erano il segnale delle divisioni che sarebbero venute.
Quello su cui trovavo da discutere, piuttosto, era che molti nostri esponenti, appartenenti a una sinistra più settaria, ritenevano che la proposta del referendum fosse un progetto troppo limitato. Loro volevano cominciare la rivoluzione -come poi avrebbero fatto alcuni dei nostri attivisti, o persone come loro, con l’idea del “portare la guerra in casa”.

Quali erano le differenti posizioni, pur ancora non manifeste, nel nostro comitato? Forse farei meglio a esporre dapprima la mia posizione, che era, a dir poco, un po’ confusa. All’epoca (come poi avrei continuato a fare per molti anni a seguire) ero molto impegnato nella rivista “Dissent”, i cui redattori e fondatori erano alcuni dei miei mentori politici. In gran parte erano ex-trotzkisti, ma all’epoca erano di fede socialista democratica e internazionalista. Alcuni di loro avevano viaggiato molto e conosciuto diversi compagni anche all’estero. Conoscevano personalmente gli esponenti della sinistra indipendente assassinati dai comunisti vietnamiti. Questo rendeva loro difficile sostenere il movimento pacifista, il cui operato, oggettivamente, avrebbe contribuito alla vittoria di quegli stessi comunisti. Penso che avrebbero addirittura sostenuto l’intervento americano, se solo a Saigon ci fosse stato un governo alternativo disposto a difendere la democrazia, a porre fine alla corruzione e a riconquistare la fedeltà della popolazione delle campagne.
Purtroppo, un tale governo non esisteva. Furono i viet-cong a vincere la battaglia per conquistare la fedeltà della gente di campagna, e così la guerra americana divenne una guerra contro una popolazione  rurale. Io ero uno dei più giovani del gruppo di “Dissent”, e forse uno dei primi a unirmi all’appello per il ritiro dell’esercito americano, ma certo non auspicavo una vittoria comunista. Sapevo, come mi avevano raccontato i miei co-redattori e gli altri autori di “Dissent”, che ne sarebbero scaturite solo repressione e crudeltà, ma pensavo  che gli orrori di quella guerra, soprattutto le immagini dei villaggi dati alle fiamme, avessero bisogno di una risposta politica. Nel comitato Cncv c’era gente come me -attivisti senza ideologia che guardavano al presente. Ma ce n’erano tanti altri che pensavano che quella fosse solo una battaglia di una lunga guerra storica, globale, contro l’imperialismo americano: ecco, erano loro i predecessori più recenti di quelli che oggi sono i militanti filo-Hamas.

Alla fine, il comitato Cncv ottenne un numero di firme sufficienti (e anche un prezioso aiuto legale pro-bono) per costringere il consiglio comunale a indire un referendum sulla guerra, che si tenne nel novembre del 1967. Circa il 40% della popolazione di Cambridge votò contro la guerra, cosa che considerammo una vittoria. Ma in quel referendum perdemmo in tutti i quartieri operai, vincendo a mani basse solo nei dintorni di Harvard Square: certo non il risultato che avremmo auspicato. Eppure ce lo saremmo dovuti immaginare, sin da quando, a fare campagna porta-a-porta in quei quartieri, mandavamo studenti in gran parte esenti alla leva a bussare alle case di famiglie che avevano figli arruolati nell’esercito, alcuni dei quali in Vietnam. Non avevamo pensato troppo a come rivolgerci agli uomini e alle donne che volevamo convincere delle nostre idee, per cui, forse, così facendo, abbiamo contribuito anche noi allo sbandamento a destra della classe operaia che si sarebbe verificato nei decenni seguenti.
Dopo il referendum, il comitato Cncv andò in frantumi. Alcuni dei nostri militanti passarono al movimento di resistenza alla leva, altri invece si unirono ai vari frammenti dei gruppi della sinistra anni Sessanta: i maoisti, i Weathermen, ciò che restava dell’Sds. Gli attivisti che definisco “guidati dal popolo” si sarebbero rivolti alla politica elettorale convinti che le candidature di gente come Eugene McCarthy (sostenuto anche da me) o di Robert Kennedy avrebbero davvero permesso di porre fine alla guerra. Nell’estate del 1968 noi eravamo alla Convention democratica di Chicago a sostenere la candidatura di McCarthy (dopo che Kennedy era stato assassinato), mentre gli attivisti “guidati dall’ideologia” si riversavano nelle strade per ingaggiare battaglia con la polizia, contribuendo così, di fatto, alla vittoria di Nixon alle elezioni del novembre successivo.

La guerra si sarebbe protratta per anni, anche se con sempre minore consenso popolare. Fu una nuova associazione, i “Veterans Against The War”, a contribuire maggiormente, almeno credo, nel convincere gli americani che c’era qualcosa di profondamente errato nel nostro coinvolgimento in Vietnam. Il loro era il più concreto e il meno ideologizzato movimento di opposizione immaginabile -parlavano della loro esperienza reale, non di “imperialismo”.
Quando poi la guerra finì, i comunisti vietnamiti che conquistarono il potere si comportarono esattamente come avevano previsto i miei colleghi di “Dissent”. A migliaia, uomini e donne, vennero mandati nei campi di rieducazione, dove venivano picchiati, torturati e uccisi. Spaventati da questa prospettiva, altrettante migliaia di persone fuggirono per mare; un esodo che sarebbe proseguito per quasi dieci anni. Circa il 25% dei profughi via mare -parliamo di 200.000 persone, tra uomini, donne e bambini- sarebbero poi annegati nel tentativo di raggiungere paesi sicuri. La sinistra ideologica, con ben poche eccezioni, ritenne di non aver nulla da dire a proposito di queste vittime di un regime che aveva contribuito a far insediare. Quei morti erano invisibili e irrilevanti, dal momento che l’obiettivo -la sconfitta dell’imperialismo americano- era stato conseguito.
I miei amici -quegli attivisti “guidati dal popolo”, anche loro corresponsabili della vittoria dei comunisti- perlomeno erano critici del nuovo governo di Saigon ed erano pronti ad aiutare coloro che scappavano. Eppure, la nostra posizione politica era difficile: avevamo condannato la guerra, al contempo riconoscendo la repressione che sarebbe derivata dalla sconfitta americana, per poi prendercela con quella repressione. Ma credo che abbiamo fatto comunque meglio di quanti, a sinistra, si sono affrettati ad andare ad Hanoi a festeggiare la vittoria comunista senza minimamente pensare al popolo del sud.

Cosa può rappresentare una politica migliore -quella che dopo l’11 settembre ho definito “una sinistra decente”- oggi? Dovrebbe opporsi tanto ad Hamas quanto all’attuale governo di Israele, guardare all’interesse delle persone e preoccuparsi tanto della salute dei palestinesi quanto di quella degli israeliani. Per i palestinesi questo significa, in primo luogo, un piano per la ricostruzione di Gaza, e in secondo luogo l’apertura di un percorso che porti la Palestina all’auto-determinazione.
Per gli israeliani, invece, questo richiede la restaurazione di un’area di sicurezza, dopo il trauma del 7 ottobre. Entrambi questi requisiti hanno un unico prerequisito fondamentale: la sconfitta, da entrambe le parti, del fanatismo ideologico e religioso.
Il fanatismo islamista di Hamas è una minaccia per tutti gli israeliani, per il loro stato e per le loro vite. D’altro canto, l’irredentismo messianico e l’ultranazionalismo israeliano sono una minaccia per i cittadini palestinesi, per i loro spazi vitali e per le loro stesse vite. Entrambi i gruppi, peraltro, minacciano anche il proprio popolo, che vorrebbero irregimentare e mobilitare in nome di una guerra santa.

Una politica di sinistra decente non dovrebbe essere tanto difficile da immaginare. Basta sostenere chiunque, palestinese o israeliano che sia, voglia garantire la libertà e la sicurezza di entrambi i popoli. Concentrarsi sull’imperialismo americano o sul colonialismo israeliano non è semplicemente una deviazione dalla politica “guidata dal popolo”, ma un vero e proprio atto di guerra contro gli israeliani -guerra che non promette di certo maggiore libertà per i palestinesi. Lo slogan che invoca la vittoria totale “dal fiume al mare”, che venga declamata nella sua variante di Hamas, o in quella del messianesimo sionista, è pur sempre uno slogan di guerra, un fanatismo contrapposto all’altro. È ora che a sinistra si abbandoni l’ideologia e si pensi a come permettere che tanto gli israeliani, quanto i palestinesi, possano vivere in sicurezza.
(traduzione di Stefano Ignone da “Something Is Wrong”, “Quillette”)