Negli ultimi due o tre anni sembra che il ricorso al Tar, il Tribunale Amministrativo Regionale, sia diventato una prassi usuale. Può confermarlo?
Sì. I ricorsi ai Tar sono in costante aumento. Nel decennio 82-93 le ordinanze dei Tar sono passate da 12.000 a 53.000, mentre quelle del Consiglio di Stato da 1000 a 3000; i ricorsi sono passati da 43.000 a 100.000 all’anno. I ricorsi pendenti ai Tar nell’82 erano 187.000 e 17.000 quelli davanti al Consiglio di Stato, nel ’93 sono diventati rispettivamente 587.000 e 24.000. E’ una crescita inarrestabile. Un cittadino ogni seicento fa ricorso.
E’ normale questo?
Non c’è dubbio che negli ultimi anni lo sfaldamento del tessuto politico, amministrativo, sindacale del paese ha provocato forme di supplenza involontaria da parte della magistratura. In assenza di altre mediazioni, non trovando nessun altro, il cittadino, per la soluzione di una controversia, si è rivolto al magistrato. Ma il ricorso al tribunale dovrebbe essere l’ultima ratio; che diventi, invece, una pratica permanente, normale, lo ritengo abbastanza pericoloso. Il giudice non può essere una sorta di Zorro vendicatore dei popoli, dei poveri e di quant’altro, anche se quella del magistrato, in particolare del magistrato amministrativo, è una funzione di garanzia. Mentre la giustizia civile è individuale, essendo la giustizia del caso singolo e quella penale risolve il conflitto fra chi ha commesso un reato e lo Stato, la giustizia amministrativa ha per sua intima essenza una funzione mediatrice, triangolare, fra l’amministrazione, il cittadino e la giustizia.
Il giudice amministrativo ha dei poteri, ad esempio nei confronti dell’amministrazione, che il giudice civile non ha: può ordinare alle amministrazioni quello che devono fare, può consigliare, può tessere una trama di rapporti, può indicare le linee da seguire anche per il futuro. Ora, se tutto questo rende interessante la posizione della giustizia amministrativa, la rende nello stesso tempo particolarmente difficile, proprio perché c’è il rischio che essa diventi l’interlocutore privilegiato di un risentimento dei cittadini ormai molto diffuso nel nostro paese. Che poi tale risentimento sia più o meno giustificato dal comportamento delle amministrazioni, è altra questione. Innegabile è il ritardo cronico dell’amministrazione nell’assolvimento dei propri doveri, dovuto a un’elefantiasi delle strutture, a una lentezza di funzionamento, a un’anzianità di strumenti e modi di rapportarsi al cittadino.
Tutto questo il cittadino lo ha sentito per anni, ma finché l’amministrazione si limitava ad essere vecchia e lenta il cittadino sopportava, malvolentieri ma sopportava, si era abituato, forse lo dava per scontato. Non ha più sopportato quando, con gli scandali di Tangentopoli, ha operato l’assimilazione fra inefficienza e corruzione.
Da questo punto di vista l’immagine che i mass media hanno trasmesso dell’amministrazione è stata devastante.
Lei cosa pensa? Quel risentimento è motivato?
All’inizio della carriera e per diversi anni, io sono stata funzionaria di amministrazione statale e devo dire che una tale assimilazione è gratuita, ingiusta, e non fa premio a quella maggioranza di persone che nelle amministrazioni lavorano onestamente. Però basta lo scandaletto dei telefonini o lo scandaletto degli invalidi per rinfocolare un sentimento di astio che il cittadino già covava a causa delle inefficienze dell’amministrazione.
Negli ultimi venticinque anni, per non andare più in là, non c’è stato nessun investimento nella pubblica amministrazione, ci sono stati grandi parole, grandi progetti mai attuati, nessun solido investimento, nessuna solida riqualificazione degli addetti, nessuna preparazione ai nuovi compiti che l’amministrazione si apprestava ad avere. Contemporaneamente, e anche questo sembra normale se parliamo di amministrazione italiana, le son piombate addosso alcune riforme che, senza una programmazione, senza una visione razionale degli scopi che si vogliono perseguire e degli strumenti che si pongono in campo, diventano dei veri cataclismi in cui si scatena una rincorsa a cercare di sopravvivere. Le faccio due esempi: uno è quello degli inizi anni ’70, quando ci fu la rivoluzione della dirigenza statale.
Un decreto Andreotti, per effetto di spinte molto forti, anche corporative, c ...[continua]
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