Come vivo? Ho scelto di continuare a vivere in Algeria nonostante la mia ufficiale condanna a morte, datata 3 giugno 1993, da parte del Movimento per lo Stato Islamico, poi fusosi nel Gia, perché sono convinta che la lotta va condotta sul posto. Ho rifiutato l’asilo politico offertomi dalla Francia. Naturalmente sono costretta a drastiche misure di sicurezza come tanti altri in Algeria, ugualmente minacciati di morte. Cambio alloggio continuamente, ogni mattina un’auto diversa viene a prendermi, esco travestita, sono obbligata a cambiarmi in auto cercando di non dare nell’occhio. La mia vera casa è una sacca da viaggio, ogni due giorni mia sorella prepara i miei abiti e altre cose di cui ho bisogno, le dò indicazioni per telefono, qualcuno va a recuperarle. Tutti noi giornalisti viviamo lo stesso inferno, ma non siamo i soli, tutta la società civile è in ostaggio. E’ vero che in Algeria negli ultimi anni ci sono stati tanti giornalisti, intellettuali, funzionari assassinati, ma il prezzo più alto è stato pagato dalle vittime anonime di cui non si parla, fino a 140 al giorno: contadini, studenti, vecchi, operai, disoccupati, bambini, e dalle donne e ragazzine rapite, stuprate, sgozzate, trucidate. 50 mila morti in quattro anni è solo una stima. Nel mio libro, al di là della mia storia personale, ho voluto testimoniare, con le verità e le parole più crude, il calvario di un intero paese, perché niente potrà mai e poi mai giustificare la sorte riservata oggi a tutto un popolo, in nome del quale degli assassini e tagliatori di teste pretendono di lottare.
Prima di lavorare a Le Soir ho animato sul terzo canale della radio algerina, quello in francese (il primo è in arabo, il secondo in berbero, il quarto è il canale internazionale, che trasmette quattro ore al giorno in inglese e spagnolo), una trasmissione radiofonica, Show débat, che andava in onda in diretta ogni giovedì dalle 17 alle 19 ed era seguitissima: molti commercianti abbassavano le serrande per ascoltarla. Era un dibattito contraddittorio, polemico, c’erano persone con opinioni diverse sul tema scelto e in funzione del quale invitavo gli ospiti. Le persone più diverse sono intervenute, mettevo di fronte il povero cittadino che veniva a lamentarsi e un ministro a rispondergli. Era una trasmissione virulenta, ed è strano come i ministri adorassero intervenirvi: o cercavano della pubblicità, o erano masochisti, perché sapevano che si sarebbero fatti flagellare. Forse avevano cattiva coscienza e venivano a spiegarsi in diretta. Nella primavera del 1992, nell’arco di due settimane dedicai due trasmissioni al tema della scuola e dell’educazione. All’indomani dell’indipendenza l’educazione, così come la cultura, gli affari religiosi, le moschee, è stata ceduta agli islamisti. E gli islamisti, quelli che noi chiamiamo gli islamo-baathisti, ne hanno fatto quello che hanno voluto: hanno incoraggiato la lingua araba ad oltranza, lo spirito nazionalista e panarabista, lo spirito anti-francese, hanno dettato il tono del discorso religioso e dato dell’islam l’interpretazione più retriva, conducendo gli allievi all’irreggimentazione ideologica e religiosa. Del resto, Alì Benhadj, numero due del Fis non dichiarò un giorno: "Se perdiamo le moschee, ci resteranno le scuole"? Ma, d’altra parte non è una novità il fatto che gli islamisti sono sempre stati usati dal potere contro i democratici. Prima di fare il Fis, erano all’interno del Fronte di Liberazione Nazionale, l’ex partito unico. Per inciso, quello stesso Fln, principale artefice del disastro algerino, che si presentò a Roma in rappresentanza di una fantomatica opposizione algerina per firmare una sedicente piattaforma di riconciliazione nazionale con un capo di assassini, il portavoce del Fis, Anwar Haddam, che dal suo ufficio di Washington, dove ha lo statuto di rifugiato politico, rivendicava impunemente le stragi con l’autobomba e l’assassinio di intellettuali e giornalisti.
L’ignoranza generalizzata è stata incoraggiata dal regime, era un modo per mantenersi al potere. L’arabizzazione imp ...[continua]
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