L’incontro con Lea Melandri è avvenuto alla fine del 2002, in occasione della presentazione, qui a Ravenna, del suo libro Le passioni del corpo.
Prima la conoscevo più che altro come nome e come figura lontana del femminismo. Conoscevo un po’ anche la sua vicenda biografica, la sua fuga a Milano, a metà degli anni ’60, me ne aveva parlato un collega che aveva insegnato nel suo stesso liceo di Lugo, e ne ero sempre stata affascinata forse perché anch’io la fuga, o una fuga, l’ho sognata tante volte ma non ho mai avuto la forza e il coraggio di metterla in pratica.
Retrospettivamente penso che quell’incontro non sia stato casuale ma il risultato di un percorso molto lento, il cui inizio faccio risalire alla lettura, per me dirompente, di un altro suo lavoro, Come nasce il sogno d’amore, uscito verso la fine degli anni ’80.
Quel libro mi fece capire l’alienazione con cui io, donna, avevo vissuto fino ad allora il rapporto d’amore, col mito della complementarietà, della perfetta fusione romantica. Fu il crollo del sogno d’amore, esistenzialmente inteso; dovetti ripensare a tutta la mia storia di donna, alle mie relazioni amorose e familiari: un bel ribaltamento coscienziale, che mi ha facilitato l’avvicinarmi, seppur tardivamente, al femminismo.
Fino a quel momento, il mio approccio al femminismo era stato assai poco sistematico. Venivo da una formazione politica abbastanza tradizionale: sono nata in una famiglia comunista, anzi potrei dire di essere nata in una sezione del Pci, dell’immediato dopoguerra, da genitori di grande passione politica, resistenti e militanti, e ovviamente ho respirato in casa quella passione; la vedevo così quotidiana in loro che per me è stato altrettanto naturale a 18 anni, non prima, iscrivermi al Partito Comunista.
Poi anch’io ho fatto il ’68 ma il mio è stato un ’68 antiautoritario, libertario ed esistenzialista, non molto ideologizzato in termini di sinistra antagonista -per dire, non ho mai fatto parte di gruppi extraparlamentari- ma che mi è servito a ripensare criticamente la cultura e la storia comunista (ripeto, venivo da una famiglia comunista ortodossa). Non fino al punto, però, di recidere il cordone ombelicale con il Partito.
Il femminismo, perciò, avevo continuato a guardarlo da lontano; forse ne vedevo solo la parte esteriore, il separatismo, che non mi convinceva, mentre io ero tutta presa dalla cultura universalistica, dal desiderio di giustizia, di un mondo più giusto per tutti. In questo ero forse più legata al femminismo socialista di una Anna Kuliscioff, quando afferma che una società più giusta sarà più giusta anche per le donne. Più tardi ho capito che forse, su quel punto aveva ragione una come Anna Maria Mozzoni, che dice: "Le donne, ciò che è più giusto per loro, debbono darselo con le proprie forze, senza attendere la società più giusta in generale”.
Nell’89 è crollato un altro sogno, il muro di Berlino, anche se sapevo benissimo che prima o poi sarebbe successo. Già nel ’68, come ho detto, avevo preso le distanze dal comunismo dogmatico provocando un robusto conflitto con i miei genitori. In particolare l’invasione della Cecoslovacchia fu profondamente lacerante per la mia famiglia: io ero filo-Dubcek e quindi assolutamente contraria, mentre i miei genitori, comunisti ortodossi, più indietro di Luigi Longo (che condannò l’invasione) dissero no, se i russi hanno mandato i carri armati, una ragione ci sarà. Quindi ci fu una frattura, non sul piano personale, perché c’è sempre stato grande amore tra noi, ma sul piano politico certamente.
L’89, sotto il profilo storico, è stato il disvelamento del fallimento di una storia, e per me l’inizio di un percorso sempre più autonomo rispetto a quello da cui provenivo.
In questa grande crisi epocale, il femminismo mi è sembrata una possibile chiave di lettura, come dire: ripartiamo da noi.
Già prima avevo preso contatto con delle donne, alcune femministe storiche e altre invece, persone di valore, che non facevano parte di gruppi organizzati e si stavano avvicinando al femminismo dell’ordine simbolico della madre, quello di Luisa Muraro, per intenderci. Con loro, nell’88, fondammo qui a Ravenna, il gruppo Aspasia, e per qualche anno ci siamo viste, ci siamo riunite, abbiamo studiato, anche qui a casa mia.
Abbiamo voluto chiama ...[continua]
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