Hai partecipato alla nascita de "I Siciliani” di Pippo Fava. Puoi raccontare?
Tutto è cominciato alla fine degli anni Settanta. Un giorno mi sono guardato allo specchio e mi sono spaventato: erano passati oltre dieci anni dal ’68, ero "grande”, avevo ventisei-ventisette anni e non avevo né arte né parte. A quel punto ho deciso di mettere la testa a posto, di trovarmi un lavoro serio, tranquillo e di chiudere, diciamo, questa fase giovanile. Pertanto ho fatto un concorso dell’ordine dei giornalisti e l’ho vinto.
Dovevo scegliere il giornale a cui andare e ho scelto l’"Ora” di Palermo, che era il giornale tradizionale della sinistra. Un giorno, avendo un’oretta libera, mi sono messo a leggere La passione di Michele, di Giuseppe Fava. Il fatto di non conoscerlo, di non averlo mai sentito nominare, mi aveva molto irritato. La sera dopo ho incontrato un amico che mi ha preso in giro perché mi volevo mettere a fare il giornalista e che però mi ha chiesto: "Hai provato a Catania?”. "Perché?”. "C’è Fava che sta aprendo un giornale nuovo...”. Così sono andato a Catania, da Pippo Fava, e mi sono messo a fare il giornalista. Io volevo fare gli esteri, perché mi ritenevo molto bravo, e lui: "No, cronaca nera”. Tra l’altro pensavo anche di avere le idee molto chiare su come si fa la cronaca nera. In realtà, non era proprio così... Per dire, se c’era una rapina nella bisca clandestina (che però si chiamava "circolo culturale Europa”), il giorno dopo qualunque traccia di quella rapina era sparita dai brogliacci della questura. Se arrestavano un mafioso a Torino con una tonnellata e mezzo di droga nel camion, il funzionario della narcotici a Catania non ne sapeva niente... cose così.
Per cui noi sparavamo sulla croce rossa. Eravamo anche molto ignoranti, nel senso che molte cose non le vedevamo, però era facile capire che c’era la mafia a Catania. Allora abbiamo iniziato a scrivere queste cose qui. Quello che doveva essere un mestiere tranquillo è diventato un mestiere molto divertente, però tranquillo non molto.
Pippo Fava era un giornalista vecchissimo dal punto di vista del mestiere, cioè era uno degli anni Cinquanta per cui la regola aurea era che tu non potevi dire assolutamente niente se non eri stato sul posto e non l’avevi verificato. In realtà i giornali non si facevano più così da molto tempo, però noi non lo sapevamo.
Io ero assolutamente convinto che il giornalista fosse "Humphrey Bogart più controllare tre volte le fonti”.
Da questo punto di vista per noi era facile; davamo delle imbucature ogni giorno al nostro avversario, "La Sicilia”; a parte quelli che erano ammanicati, i colleghi erano anche brava gente, ma non ne avevano più voglia.
Noi addirittura avevamo le radio truccate, per cui spesso arrivavamo sull’omicidio prima della polizia, perché intercettavamo le volanti. Eravamo ferocissimi… Una volta Claudio e io intercettammo un carro funebre su una strada di campagna. "Che ci fa un carro funebre su una strada di campagna?”, "Seguiamolo!”. Cose di questo tipo. Alcune divertenti, ma alcune veramente orribili. Per esempio, il morto ammazzato all’epoca si distingueva in "morto col morto” e "morto senza morto”, quando il morto se l’erano portato via. Alle sette di mattina, "Pronto, Riccardo, c’è un morto”. "Che morto?”, "Un morto col morto”. "Ah, allora vengo!”, e mi fiondavo sulla vecchia Citroen…
In quegli anni, scoprimmo anche il livello alto dei mafiosi. Voglio dire, il colonnello dei carabinieri andava a cena con Santapaola. Il capo della squadra mobile ricattava dei carabinieri per via di una ragazzina, non parliamo di alcuni giudici... Ogni mese partiva un camioncino carico di salumi e formaggi per la casa di un giudice da parte del clan Ferlito. Questo avveniva alla luce del sole.
Tu avevi questa grande piazza quadrata ...[continua]
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