Maria Salghetti, infermiera, nel 1971 è andata a lavorare in Tanzania nei campi del movimento di liberazione del Mozambico, il Frelimo (Frente de Libertaçao de Moçambique). Con l’indipendenza è diventata mozambicana e ha lavorato nel sistema sanitario del Mozambico fino al 1991 per poi ritornarci nel 2006.

Hai accompagnato da vicino l’ultima fase della lotta di liberazione del Mozambico e poi ti sei stabilita là per molti anni. Puoi raccontarci la tua esperienza?
Negli anni Settanta praticamente non si parlava quasi mai delle colonie portoghesi. Un mio fratello era andato a una conferenza del professor Silvio Pampiglione, amico storico del Frelimo, che aveva parlato del suo viaggio in Tanzania (in Mozambico non si poteva andare), della lotta di liberazione del Frelimo e dell’incontro con Marcelino dos Santos e Amilcar Cabral. Pampiglione, medico parassitologo, aveva parlato anche delle necessità del Frelimo nell’area sanitaria. A quel punto mio fratello mi ha detto: "Ma perché non vai?”. Così nel ’71 sono andata a Reggio Emilia a lavorare per alcuni mesi all’Arcispedale, gemellato con l’ospedale del Frelimo nel nord del paese, a Cabo Delgado, nelle zone liberate, anche per fare esperienza di emergenza, di traumatologia e ortopedia, visto che si prevedeva di trattare feriti di guerra. Poi con una delegazione dell’Arcispedale siamo andati in Tanzania, ospiti del Frelimo, e lì abbiamo visitato i campi di Mtwara, Tunduru e Bagamoyo. Una volta là, ho chiesto di rimanere e hanno accettato.
Ho quindi seguito per tre settimane le lezioni di portoghese, insieme coi ragazzi nel campo di Bagamoyo, la scuola secondaria del Frelimo che formava anche gli insegnanti per le elementari. C’erano dei giovani professori olandesi molto bravi, che applicavano metodi didattici interessanti; ho imparato piuttosto bene il portoghese.
Poi sono andata a Mtwara, a pochi chilometri dalla frontiera con il Mozambico, sul fiume Rovuma, dove c’era l’ospedale del Frelimo. L’ospedale era piccolo, aveva circa settanta letti, con una sezione femminile per donne e bambini, una maschile, una sala operatoria. Ci lavoravano due medici bulgari, una coppia, lui era traumatologo, ortopedico, e lei era pediatra. E poi c’ero io, tutti gli altri erano mozambicani. In settembre abbiamo cominciato il corso per infermieri per preparare i guerriglieri a curare e a soccorrere i feriti di guerra, per portarli fino alla frontiera. Da lì c’era un’ambulanza, chiamata via radio, che portava i feriti fino in ospedale. Il problema principale era appunto quello di non far morire i feriti lungo il tragitto, a volte dovevano essere trasportati a braccia con barelle pieghevoli per due-tre giorni di cammino.
Nell’intervallo tra un corso e l’altro, di tre mesi circa, andavo a Tunduru, il campo educativo dove c’erano circa 1.400 persone,  di cui più di mille ragazzini che frequentavano la scuola elementare. Lì il mio compito era di organizzare l’asilo infantile e fare un corso di puericultura per le guerrigliere che si occupavano dei bambini degli orfanotrofi all’interno delle zone liberate. Diciamo che non erano proprio orfanotrofi: c’erano anche figli di guerriglieri che non potevano occuparsene; anche le donne partecipavano alla lotta armata.
A un certo punto il campo di Tunduru è stato individuato dall’esercito portoghese che ha cominciato a sorvolarlo con gli aerei da ricognizione; sono state scavate trincee e i bambini più grandi, quelli dell’ultima classe elementare, sono stati addestrati a usare la trincea per scappare verso la foresta. I piccolissimi li portavamo nella foresta all’alba e li riportavamo indietro al tramonto; ricevevano le loro lezioni in una piccola radura, ogni classe una radura.
Ricevevamo i medicinali da tutti i paesi, soprattutto dai paesi socialisti, Unione Sovietica, Cina, Romania, e poi anche da paesi occidentali, più da gruppi che da governi. Ci arrivavano spesso dei campioni, creandoci molte difficoltà, perché ci sono dentro solo due-tre compresse per ogni tipo di medicinale, e questo rende difficile mettere insieme una cura, comunque erano utili.
Eravate informati di quello che succedeva, partecipavi?
Eravamo informati attraverso i compagni che venivano dalle zone liberate, che ci raccontavano cosa stava succedendo; poi c’era l’informazione più formale, un giornalino del Frelimo con tutte le notizie sull’andamento della guerra, e poi c’erano le riunioni. Spesso venivano per qualche giorno i responsabi ...[continua]

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