Meena Patel fa parte dell’associazione femminista e antirazzista Southall Black Sisters, che ha sede a Southall, nel Regno Unito; un’organizzazione laica che assiste le donne vittime di violenza e lotta per affermare i loro diritti alla giustizia, all’uguaglianza e alla libertà; l’abbiamo incontrata nel corso della conferenza internazionale "Women’s rights first of all” organizzata da ‘Women’ e dal Comune di Forlì.

Qui si possono vedere le foto dai quarant'anni di storia delle Southall Black Sisters

Puoi raccontarci la tua storia?
Le mie radici sono indiane, ma sono nata in Kenia. Quando i britannici invitarono gli indiani a trasferirsi in Africa per lavorare nelle ferrovie, mio nonno partì e quindi mio padre è nato in Africa. Poi mio padre tornò in India, dove sposò mia madre, per poi ripartire per l’Africa. A un certo punto ottenne una borsa di studio per il Regno Unito, come fotografo, e così ci trasferimmo qui nei primi anni Sessanta. Io avevo tre anni, ma ho ancora ricordi molto vivi delle difficoltà che incontrammo: i miei dovevano continuamente cambiare casa, tra l’altro non conoscevano neanche le leggi del paese, non sapevano se fossero previsti degli aiuti per i migranti. Poi ricordo che dovunque andassimo leggevamo sulle vetrine, "No Wogs” (termine denigratorio usato per gli asiatici), "No Pakis”, assieme a "No gatti”, "No cani” "No bambini”.
È stata veramente dura per i miei genitori, entrambi della classe operaia. Mio padre dovette poi rinunciare alla borsa di studio per lavorare per la famiglia. Eravamo davvero poveri, vivevamo in cinque in una stanza... Alla fine però entrambi riuscirono a trovare un lavoro e a comprare una casa.
Mia madre era la persona più forte della famiglia. Avendo quattro figlie si era trovata ad avere molti problemi con i parenti; ci ha raccontato che le dicevano perfino che avrebbe dovuto ammazzarci tutte… I suoi non la sostenevano per niente e i problemi non mancavano: la casa, i soldi, il razzismo... Lei però ha combattuto perché noi avessimo una buona educazione (mentre mio padre era dell’idea che appena compiuti i 17-18 anni, avremmo dovuto sposarci). Da questo punto di vista sono stata molto fortunata: lei era veramente molto chiacchierata nella comunità. Nel tempo erano arrivati molti asiatici nel Regno Unito, e perlopiù venivano a vivere dove stavamo noi; alcuni di loro erano imparentati con mia mamma o mio papà. Ecco, lei a un certo punto si stufò del modo in cui la comunità si intrometteva su come stesse facendo crescere le figlie. Per esempio, al sabato ci dava i soldi per andare al cinema, e c’erano questi vecchietti che stavano seduti sulle panchine e poi andavano a dirle: "Ah, ho visto vostra figlia saltare su un bus, ma dove stava andando?”.
Mia madre si indispettì sempre di più per quel tipo di pettegolezzi e alla fine ci mandò a vivere da un’altra parte. Era una donna coraggiosa. Purtroppo questo tipo di atteggiamento pettegolo lo si ritrova ancora nelle donne più anziane originarie dall’India, Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka. Per esempio, in casa abbiamo i contatori del gas e dell’elettricità, e qualche volta vengono i tecnici, che di solito sono uomini, a controllarli. Ecco, subito girano le voci: "Ah, ora esce con un bianco”, oppure "Oh, è una prostituta...”. Questo tipo di gossip, per una donna asiatica, ma anche semplicemente per una donna single, può diventare qualcosa di molto pesante, con cui è difficile convivere.
Puoi parlarci dell’associazione Southall Black Sisters?
Le Southall Black Sisters (Sbs) sono state fondate nel 1979 da un gruppo di donne afro-caraibiche e asiatiche, all’epoca molto attive e combattive. In quel periodo erano morte due donne: una, madre di quattro figlie era stata uccisa dal marito come punizione per non aver generato un maschio; l’altra si era suicidata.
Questi eventi avevano segnato una svolta. La comunità infatti era rimasta in silenzio, non aveva reagito pubblicamente: erano questi ...[continua]

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