Oggi si parla molto di "platform capitalism”, che cosa si intende?
Il cosiddetto capitalismo delle piattaforme è la definizione che sempre più spesso viene utilizzata per descrivere il modello contemporaneo di capitalismo e il rapporto tra processo lavorativo e processo di valorizzazione. Si tratta infatti di comprendere come l’introduzione di piattaforme digitali stia trasformando il lavoro e come queste riconfigurino i rapporti tra capitale e lavoro.
Nel volume che abbiamo curato insieme a Maurizio Teli (Platform Capitalism e confini del lavoro negli spazi digitali), abbiamo cercato di condividere strumenti interpretativi capaci di cogliere la scala globale di questo fenomeno e le coordinate di novità e continuità in relazione alle precedenti forme del capitalismo. Il nostro principale intento era quello di mettere in luce alcune caratteristiche storico-ideologiche dei mutamenti della soggettività negli spazi digitali. Abbiamo riflettuto in primo luogo su come il capitalismo contemporaneo abbia mercificato ambiti della vita che prima non lo erano mai stati, tra tutte la capacità umana di costruire relazioni sociali. Questo fenomeno è stato ampiamente problematizzato negli studi sociali sui media, che hanno mostrato come i maggiori social media contemporanei siano passati attraverso un percorso che inizialmente promuoveva forme di aggregazione sociale per poi trasformarsi, anche a livello tecnologico e algoritmico, seguendo l’imperativo dell’accumulazione, ovvero mercificando quelle stesse forme di aggregazione sociale rese possibili nella prima fase. Ci siamo anche interrogati su quali possano essere le pratiche cooperative e ricompositive capaci di contrastare questo modello.
Stanno cambiando anche i confini lavoro-vita...
I cambiamenti di cui abbiamo parlato finora, sia in termini di modello di capitalismo che di esperienze lavorative che i soggetti collezionano nell’arco della propria traiettoria biografica, stanno rivoluzionando non soltanto le modalità e le rappresentazioni del lavoro, ma anche i suoi tempi e i suoi spazi. Sempre più spesso le aziende adottano delle configurazioni lontane dallo schema temporale tradizionale (le otto ore giornaliere, per cinque giorni la settimana, per quarantasette settimane l’anno), che non riguardano esclusivamente la durata dell’orario lavorativo, ma anche la sua collocazione nello spazio e la sua im-prevedibilità. Nella società sempre "connessa”, in cui lavoro e consumo, cultura e intrattenimento, sport e rapporti con uffici e servizi sono sempre a disposizione per tutti (24 ore su 24, 7 giorni su 7), gli spazi e i tempi di lavoro si intrecciano con gli altri ambiti di vita formando molteplici configurazioni, sino a diventare da essi inseparabili. Jonathan Crary ne parla in termini di nuovo modello sociale che si sta affermando. Ma già Luciano Gallino agli inizi degli anni Duemila parlava di "placeless society”, proprio per indicare la fine dell’epoca in cui il lavoro era chiaramente separato dagli spazi e dai tempi della vita privata.
Sergio Bologna, a metà degli anni Novanta, nelle sue "Dieci tesi per la definizione di uno statuto del lavoro autonomo. Il lavoro autonomo di seconda generazione” ha coniato il termine domestication proprio per descrivere lo sfumare dei confini tra tempi di vita e di lavoro e la progressiva sovrapposizione tra luogo dell’abitare e luogo del lavorare. Ciò che è più interessante nella sua lettura è l’analisi di questo mutamento come un processo estremamente ambiguo, che comporta sia la costruzione di una possibile nuova autonomia, sia di una più invisibile subordinazione, che costringe le persone a lavorare senza limiti, offuscando la separazione tra la propria occupazione e il proprio tempo libero. Stabilire in che misura la domestication del lavoro sia un’opportunità o un rischio dipende dalle singole situazioni, dalle politiche aziendali, dalle condizioni di lavoro e dag ...[continua]
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