Le richieste di autonomia differenziata avanzate da Veneto, Lombardia e, anche se in forme diverse, dall’Emilia Romagna hanno riaperto il dibattito sul federalismo. Possiamo intanto spiegare di cosa si tratta?
Si tratta di un procedimento introdotto in Costituzione nel 2001 che consente alle sole regioni ordinarie di acquisire competenze legislative e amministrative -e di conseguenza trasferimenti finanziari- in una serie predeterminata di materie, la cui identificazione peraltro non è così semplice. Se infatti parliamo di istruzione o ambiente, l’identificazione concreta delle misure che possono essere adottate con una legislazione regionale non è così chiara a priori, ci vogliono delle negoziazioni.
Tale procedimento ha visto un’accelerazione nel momento in cui è stato spinto politicamente con dei referendum, giuridicamente inutili ma politicamente significativi. Tant’è che precedenti tentativi non supportati da referendum non hanno avuto successo.
Cos’è accaduto? Che dopo i referendum che si sono tenuti in Veneto e in Lombardia alla fine del 2017 il governo precedente, pochi giorni prima delle elezioni del marzo 2018, ha stipulato degli accordi preliminari con le tre regioni (l’Emilia-Romagna non ha seguito l’iter referendario) e a febbraio di quest’anno il nuovo governo ha concluso delle bozze di intesa.
La Costituzione stabilisce infatti che questi trasferimenti di competenze debbano avvenire sulla base di intese tra lo stato e le regioni interessate. Il cosa e il come però rimane tutto da definire, non c’è una procedura già prescritta. Per esempio: chi fa le intese e quale valore hanno? Ora, ad esempio, uno dei nodi del dibattito riguarda se il parlamento abbia o meno il potere di intervenire nel merito, cioè se possa modificare le intese o se possa solo approvare o respingere in toto quanto negoziato dal governo.
Ecco, si è scoperto adesso, con l’avviamento di questo processo, che in realtà la procedura è ancora tutta da scrivere. Questo ha provocato da un lato delle richieste magari un po’ aggressive e dall’altro delle paure forse un po’ eccessive.
Tu hai sottolineato come l’espressione "autonomia differenziata” sia un pleonasmo.
Autonomia non può che significare differenziazione. Tra l’altro oggi esiste una forte disomogeneità pur all’interno di un sistema formalmente omogeneo: non esiste una regione uguale a un’altra e gestita allo stesso modo. Qui c’è anche una questione ideologica di fondo da affrontare: c’è chi propende per accettare queste diversità e provare a valorizzarle e chi invece è spaventato dal prendere atto delle diversità perché potrebbero portare a ulteriori divaricazioni nelle condizioni di vita delle persone.
Il problema del diritto è che non si possono fare gli esperimenti in laboratorio prima: certe cose si vedono soltanto quando vengono applicate. Allora, c’è chi dice -e io mi trovo più su questo versante del dibattito- che la divaricazione crescente tra i territori è avvenuta all’interno di un sistema ossessionato dall’omogeneità, per cui è giusto provare un’altra strada, cioè provare a prendere atto delle differenze e a disciplinarle meglio.
Dall’altra parte c’è invece chi dice che con una situazione socio-economica e politico-culturale così diversa tra le varie regioni, avallare questa opzione, abdicare al ruolo uniformante dello stato, presenta pericoli gravi.
Il dato molto interessante è che questa grande distinzione di approcci tende molto a seguire il criterio territoriale. Se osserviamo il dibattito apertosi tra gli studiosi scopriremo che a nord di Roma tende a prevalere una visione e a sud di Roma prevale quella opposta. Questo vale anche per la discussione sulle autonomie speciali, che pure non sono toccate da questo processo. Il fatto è che è difficile staccare l’aspetto giuridico da quello politico e culturale.
Faccio un esempio banale e provocatorio: in Alto Adige se sei antiautonomista sei considerato sostanzialmente un fascista perché lo stato unitario significa l’imposizione da Roma, significa tornare al ventennio, eccetera eccete ...[continua]
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