In questi ultimi anni, la crisi e l’informatizzazione di alcune procedure, hanno fatto sì che i cosiddetti "servizi”, a lungo considerati attività minore, abbiano assunto un peso inedito nella vita e nell’organizzazione del sindacato. Puoi raccontare?
La tutela individuale, intesa come risposta alle pratiche burocratiche nel rapporto con la pubblica amministrazione, è di antichissima tradizione. L’Inca, il patronato, è nato sostanzialmente con il sindacato, con l’obiettivo di dare risposte a bisogni che le persone non erano in grado di soddisfare da sole. Tradizionalmente era la domanda di pensione, poi nel corso del tempo il ventaglio si è allargato. Questo, va detto, in ragione non tanto di una scelta sindacale quanto di una sottrazione dello Stato dalla sua funzione di risposta al cittadino.
Questa operazione di sottrazione ha interessato innanzitutto la dichiarazione dei redditi, con un incremento delle attività dei centri di assistenza fiscale. Poi, in particolare negli anni Duemila, l’analoga sottrazione dell’Inps, con il passaggio di alcune pratiche verso modalità esclusivamente telematiche, ha spinto ad allargare le tipologie di risposta e quindi il nostro carico di lavoro.
A questo si associa il lavoro dell’ufficio vertenze, dove ugualmente facciamo fronte al problema personale del singolo lavoratore, che sia differenza retributiva o licenziamento, grazie a uno sportello dedicato e a un rapporto privilegiato con alcuni avvocati del lavoro.
Ora, fino a che si è trattato di un’iniziativa di supporto alle persone, e non di supplenza dello stato, in realtà i cosiddetti "servizi” non sono stati oggetto di particolare attenzione per il sindacato. Non c’era nemmeno un’analisi organizzativa di come rispondere al meglio.
Nel momento in cui la domanda di "tutela individuale” ha iniziato a salire vertiginosamente, soprattutto a causa della crisi, e quindi con l’aumento in particolare delle domande per l’indennità di disoccupazione, la mobilità, ecc. ma soprattutto nel momento in cui ci siamo resi conto che molte delle nuove iscrizioni al sindacato arrivavano da qui, abbiamo iniziato a porci delle domande su come accogliere queste persone.
Devo dire che ci siamo dovuti preoccupare anche di come organizzare al meglio questa grande affluenza perché una cattiva gestione dei flussi rischiava di dare l’idea, soprattutto tra gli iscritti, che non fossimo nelle condizioni di dare una risposta: io pago la tessera, ma tu non sei in grado di rispondermi. Si è trattato anche di trovare dei luoghi fisici dove incanalare le persone perché comunque le nostre sedi sindacali non sono dei palazzoni.
Cosa vuol dire fare accoglienza per un sindacato?
Per noi oggi accoglienza significa mettere al centro la persona con il complesso dei suoi bisogni, cercando di dare una risposta unitaria.
Significa anche provare a dire chi sei. Perché non basta mettere in campo una risposta di natura organizzativa, serve anche una risposta di natura valoriale. Per cui l’accoglienza è pure un modo per dire che tu non sei né l’Inps né l’Agenzia delle Entrate, sei un luogo che sta in piedi in ragione del fatto che milioni di persone si iscrivono alla Cgil permettendoci di svolgere questo tipo di attività, di cui poi beneficiano tesserati e non tesserati. Oggi l’accoglienza, almeno in Lombardia, è estesa pressoché in tutte le sedi. Nel momento in cui arriva una persona, il primo obiettivo è esaudire la sua domanda specifica. Ma il lavoro non finisce qui: per noi accogliere vuol dire anche capire se ci sono dei bisogni inespressi a cui possiamo ugualmente offrire delle risposte.
Il lavoro dell’accoglienza è fatto innanzitutto dalle persone. Negli anni abbiamo molto riflettuto sulla costruzione di una competenza specifica, perché far emergere dei bisogni inespressi vuol dire intanto far sapere cosa fa il sindacato, ma prima ancora vuol dire instaurare una relazione con la persona che è venuta a cercarti. Non solo, sapere accogliere comporta anche la capacità di gestire problemi di ansia, conflitti, che ...[continua]
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