Come sei venuta a conoscenza di Longomai?
Anni fa ho incontrato sul treno un longomaiano, Guido. Mi ha parlato della comunità in cui viveva in Provenza, ma non ho capito bene di cosa si trattasse. Mi incuriosiva però la durata dell’esperimento. Il progetto è iniziato nel 1972 e “Longomai” in lingua provenzale vuol dire proprio “che duri a lungo”. Cominciarono a mandarmi dei bollettini che però finivano quasi sempre come carta da macero. Sei anni dopo questo incontro è uscito “Diario di Lo”, Guido mi ha mandato altra roba e mi ha detto che il libro gli era piaciuto. Rimasi stupita, perché “Diario di Lo” (la storia di Lolita vista dalla parte di lei, ndr) è assolutamente non in linea con quello che mi aspettavo fossero loro. Temevo, dai testi che mi mandavano, un’ortodossia comunista vecchia e noiosa. Alla fine, dopo sei anni di sollecitazioni, sono andata. Era come una specie di richiamo, ho capito che non andando mi sarebbe sempre rimasto il dubbio su che cosa non ero andata a conoscere. E poi intravedevo anche degli aspetti interessanti: la vita comunitaria, l’agricoltura, le varie attività, i formaggi, i tessuti, la radio libera. Una volta andata, mi è sembrata una cosa di cui dare notizia. Per dimostrare che il nostro non è l’unico modo di vivere possibile in Occidente.
Quale è stata la tua impressione dopo il primo incontro?
Molto sfaccettata, proprio nel senso delle facce, che erano molto diverse una dall’altra. Quelle dei più vecchi, vitali, quelle dei più giovani, piene di aspettative. C’era poi il fascino di vedere persone veramente presenti a quello che facevano, contente di partecipare a uno scopo condiviso.
Vedevo la realizzazione di alcune mie fantasie: la condivisione, la rotazione dei lavori, il non essere ingabbiati in nulla, il poter fare a meno di regole, statuti, e nonostante questo mantenere una grande decenza nei rapporti umani. E poi mi era piaciuta l’assenza di lusso, di spreco, questa società dei consumi così opprimente lì non c’era. C’era invece una grande eleganza naturale, che faceva parte di uno stile di vita che prescindeva dal superfluo e che riusciva a combinare un impegno politico molto sentito con la capacità di mettere in piedi qualcosa di difficile come l’agricoltura, la produzione della lana, la condivisione dei figli, la loro educazione, i rapporti umani.
Quando io sono stata a Longo ormai la componente un po’ buia, stalinista, dei primi tempi non c’era più.
Per stalinista intendi, per esempio, la separazione dei figli dalle madri voluta da Roland Perrot, detto Remi, il fondatore e soprattutto il grande capo carismatico di Longomai?
Per esempio. A Longomai sono stati fatti diversi esperimenti sociali perlomeno discutibili. Quello della separazione dei figli dalle madri per essere affidati, per esempio, a una laureata in psicologia, solo perché in teoria doveva essere una madre più competente, è senz’altro uno dei più neri. Ma non è durato molto. Comunque all’inizio ci sono state pagine poco chiare e loro ne parlano malvolentieri, perché vorrebbero presentarsi solo come un esperimento riuscito. Del resto, tranne Remi, che nel ‘68 aveva già 37 anni, gli altri fondatori di Longomai erano veramente dei ragazzini, erano tutti sui 16, 18 anni, per cui non erano stati capaci di impedire che prendessero piede autoritarismi che non sempre condividevano. Così alla fine anche questo mi ha colpito: che come in tutte le famiglie i panni sporchi non si fanno vedere.
Che sensazione ti ha lasciato questa figura un po’ oscura, sicuramente autoritaria, di Remi?
Quando sono andata per la prima volta a Longomai, Remi era già morto. Quindi le impressioni che mi sono fatta derivano dal racconto degli altri. Remi era sicuramente un trascinatore, del resto era inevitabile che un trascinatore ci fosse, perché altrimenti è difficile che dei ragazzini si convincano a intraprendere un progetto duraturo riuscendo a mettere insieme qualcosa che appare così difficile. C’erano però anche altre personalità forti, che si sono duramente scontrate con lui. Uno in particolare se n’è andato perché non condivideva l’idea del passaggio rurale di questa esperienza, riteneva che tutto dovesse avvenire nelle città scontrand ...[continua]
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