Quando sei arrivato in Italia?
Sono arrivato in Italia nel ’90, con un semplice permesso transitorio per turismo. A quei tempi per entrare in Italia bastava il passaporto; nemmeno un mese dopo ho avuto il permesso di soggiorno.
Ho cominciato lavorando per due mesi in un villaggio vacanze, parlavo tedesco e francese e facevo da intermediario tra i turisti e gli animatori; poi ho conosciuto un ragazzo tedesco che mi ha insegnato il mestiere della lavorazione del cuoio e ho iniziato a fare l’artigiano, girando tutto il Meridione, tutti i paesini della Sicilia e della Calabria per fare le fiere di paese. Alla fine del ‘94 mi sono trasferito a Torino, dove avevo già amici e conoscenti anche perché volevo cambiare attività; il lavoro era diventato troppo faticoso, avevo due case, una in Sicilia e una in Calabria, e non vivevo mai realmente in nessuna delle due, ero sempre fuori, lontano anche 200 o 300 chilometri. E poi desideravo cambiare vita, è una cosa che mi piace fare ogni tanto.
Appena arrivato a Torino ho cominciato distribuendo un giornale di strada a offerta libera e dopo poco sono entrato a far parte della redazione; ovviamente non era una redazione professionale però c’era un gettone di presenza. Il giornale aveva sede alla Cgil e lì ho cominciato a conoscere i mediatori culturali che lavoravano all’ufficio stranieri. Così quando è arrivata la richiesta di un mediatore culturale per il Ferrante Aporti l’intervento è stato proposto a me. Proprio in quei mesi stava per nascere il Centro Frantz Fanon, che aveva in progetto di occuparsi di etnopsichiatria e ho partecipato anch’io a quell’avventura. Mi sono trovato così nel cuore dell’attività della cooperativa Sanabil, che fa mediazione culturale e ho trovato uno spazio, una possibilità per agire, per partecipare.
Tra l’altro era un tipo di lavoro che rappresentava una continuità con i miei studi e le mie prime esperienze lavorative; in Francia infatti avevo studiato etnologia e sociologia, e per la tesi (sulla scolarizzazione e l’insuccesso scolastico dei figli degli immigrati) avevo lavorato dapprima in un’associazione di immigrati che faceva sostegno scolastico ai figli di immigrati nelle scuole pubbliche, in seguito con un ente statale, l’Associazione Nazionale per la Salvaguardia dell’Infanzia e dell’Adolescenza, con il quale avevo partecipato ad un’attività di educazione di strada, con la presenza di educatori professionali nei quartieri a rischio.
Oggi di che cosa ti occupi in particolare?
Da due anni lavoro all’Ufficio Minori Stranieri della Cgil di Torino e continuo l’attività al Ferrante Aporti con diversi ruoli, come operatore del laboratorio di comunicazione, dove facciamo un giornalino, e in attività di auto/mutuo-aiuto e di sostegno. Inoltre continuo a fare il mediatore culturale con il centro Frantz Fanon e sono diventato presidente della cooperativa Sanabil (che in arabo significa “spighe”). Sono molto soddisfatto di queste attività perché mi sento riconosciuto professionalmente. Le prime esperienze di partecipazione erano state più deludenti perché c’era la tendenza a relegarci in un eterno ruolo di utenti.
Nel tuo lavoro riesci a farti un quadro della situazione dei minori immigrati?
Essendo magrebino, seguo perlopiù minori di quell’area geografica. La presenza di minori magrebini qui a Torino è iniziata intorno ai primi anni ’90; erano soprattutto ragazzini soli, che facevano i lavavetri ai semafori o vendevano oggetti per le strade; certo, non erano arrivati qui a Torino da soli, però erano visibilmente soli, facevano un’attività da grandi e non avevano una vita scolastica e familiare.
Questo fenomeno può essere spiegato facendo la storia dell’immigrazione in Italia: in pratica prima dell’85 c’era soprattutto un’immigrazione di passaggio, composta da persone in maggioranza del ceto medio-superiore che venivano in Italia per studiare o come profughi; dopo l’85 è cominciata l’immigrazione da lavoro, per motivi economici. Gli immigrati che si stabilivano a Torino provenivano soprattutto dall’altopiano centrale del Marocco ed erano in maggioranza persone adulte che lavoravano come ambulanti, erano autorevoli capi famiglia che vendevano tappeti o accendini; si trattava quindi di vere e proprie attività commerciali. Ma erano temporanee, stagionali, e quind ...[continua]
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