Tu ti occupi di saperi, formazione e innovazione da tanti anni, ed ora esprimi preoccupazione nel vedere che questi argomenti sono diventati progressivamente luogo comune nei dibattiti politici…
Sì. Mi occupo da anni di questi temi e dovrei essere contento nel vedere che tutti ne parlano, solo dieci anni fa si faceva fatica a portarli alla ribalta.
Ho scoperto la centralità del sapere quando mi occupavo di operai, di porti e siderurgia, e mi sono trovato di fronte la crisi di quel modello industriale, di Genova, delle partecipazioni statali. E’ stato lì che l’investimento in sapere mi è sembrato l’unica carta giocabile, da quella città e da quel territorio: scoprire e valorizzare il sapere insito nei lavori operai, nei lavori del porto poteva diventare centrale anche per un modello di sviluppo e per un progetto di società diversi. E poi mi sono occupato di scuola, di università e di ricerca.
All’epoca erano discorsi totalmente controcorrente; adesso invece mi preoccupa il fatto che stiano diventando banalità politica: sei a un consesso di economisti o di politici e dopo un po’ si finisce regolarmente a parlare di centralità dei saperi, della scuola e dell’università. Il problema è che quando sono le bugie a diventare luoghi comuni è sufficiente fare una campagna di demistificazione, ma quando sono le verità la situazione diventa assai più pericolosa.
Allora una delle motivazioni di fondo di questo lavoro è cercare di capire perché promuovere la centralità del sapere è cosa più facile a predicarsi che a farsi. Quali sono, nel modo di concepire l’economia e la politica, gli ostacoli reali che impediscono a questa priorità di passare dal predicato al praticato? Cerco di individuarne alcuni. Il primo è questo: io credo che in una cultura come la nostra, ancora profondamente impregnata di economicismo, sia a destra che a sinistra, si fatichi a capire che l’economia poggia su elementi, quali il sapere, la creatività, l’innovazione, che non sono quantificabili o descrivibili in termini economici, né secondo i dettami dell’economia classica né di quella neoclassica. Occorre la risistemazione di alcune categorie concettuali di fondo, cosa non facile a farsi; a destra per ragioni ovvie, perché l’idea di un’economia della conoscenza è smaccatamente strumentale: in un’economia che ha come unico obiettivo la realizzazione a breve del massimo profitto, prima o poi vengono erose le basi stesse attraverso cui il sapere si produce e riproduce, imponendogli tempi e modalità che non gli sono propri.
Però mi interessa capire perché anche a sinistra è difficile fare di questo tema una priorità. Io lancio un’ipotesi un po’ azzardata, cioè che siamo tanto abituati al primato dell’economico, secondo le vecchie categorie del marxismo -la struttura e la sovrastruttura- che una volta crollato il marxismo meglio l’economia neoclassica di niente. Questo impedisce di capire che la costruzione di uno spazio pubblico del sapere è diventata la condizione imprescindibile oggi per lo sviluppo economico, per il mercato.
Insomma, se tu la pensi davvero la priorità del sapere, ti rendi conto che è possibile, e forse inevitabile, ripensare il rapporto politica-economia in termini diversi. Perché questo sapere non c’è nessun mercato che in quanto tale lo riproduce. C’è bisogno di politiche pubbliche che garantiscano lo spazio pubblico del sapere. Uno spazio pubblico non statalista, a cui possono concorrere imprese, associazioni, le diverse autonomie della società, ma che senza una forte volontà politica e senza una regia pubblica, non si dà. Anzi, è dimostrato che tutte le volte che uno spazio pubblico viene eroso, viene segato anche il ramo su cui l’economia e la conoscenza poggiavano.
Tu proponi di rivedere anche l’organizzazione attuale della politica…
Sì, io penso che l’economia della conoscenza la facciano le persone e questo comporta la messa in discussione di quei meccanismi di delega su cui la politica si è finora fondata. Il sapere è nella testa della gente, degli uomini e delle donne, e richiede confronto, relazione, il protagonismo delle persone. Richiede, anche, la distribuzione dei poteri e la valorizzazione delle competenze, in definitiva il superamento del modo tradizionale con cui la politica seleziona i suoi quadri ...[continua]
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