Questo, sostanzialmente, il nocciolo duro della critica alla proprietà di Proudhon, che è poi quello che porta alla polemica con Marx. Per Marx, che critica la proprietà non da un punto di vista etico-giuridico, ma in quanto espressione sovrastrutturale dei rapporti di produzione capitalistici, il problema di pensare ad un’abolizione del diritto di proprietà non esiste perché, secondo lui, esso sarà risolto automaticamente dal processo storico, dalla rivoluzione sociale. Per questo, secondo Marx, Proudhon ha una concezione piccolo-borghese, perché ha un’idea della proprietà autofondativa, mentre la proprietà non sarebbe nient’altro che un’espressione di rapporti di produzione capitalistica.
Ora, abbiamo detto che nel primo Proudhon l’espressione fondamentale della critica si basa su un’istanza di tipo etico-giuridico, che per lui è data dal lavoro, ed è proprio per l’assenza di tale base etica che, come detto, egli critica l’esistenza stessa della proprietà borghese e la definisce “un furto”. Siamo alla terza memoria sulla proprietà (ne aveva già scritte altre due), che gli dà fama internazionale. Negli anni successivi, dal 1840 al 1860, seguono altre opere fondamentali, in particolare il Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria, a cui Marx risponderà col noto Miseria della filosofia. In questo secondo momento della prima fase, oltre a mettere in luce le contraddizioni del sistema capitalistico borghese e dell’economia proprietaria, Proudhon sostiene, polemizzando con Marx, che il comunismo è un concetto mistificante, perché la proprietà intesa come possesso non può essere eliminata. Si può, cioè, eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma non si può eliminare la proprietà “di fatto”, quella che Proudhon chiama “possesso”. Infatti, dice Proudhon, anche se si abolisce la proprietà privata dei mezzi di produzione, questi diventeranno comunque di qualcuno, perché è impossibile non attribuirne l’uso a qualcuno. Si può perciò discutere sulle forme della titolarità -proprietà privata borghese, proprietà collettiva dello Stato, autogestione da parte dei lavoratori- ma non sul concetto di titolarità, per cui i mezzi di produzione, di scambio e di consumo, cioè le sorgenti della vita materiale, è inevitabile siano attribuiti a qualcuno. Tale qualcuno, per Proudhon, è il lavoratore, cosicché chi lavora in una fabbrica o in un campo ne è di fatto proprietario in quanto la possiede proprio attraverso il lavoro. E’ da qui che muove l’idea dell’autogestione.
Ma, attenzione, siamo ancora nel primo Proudhon. Il secondo Proudhon, quello che scrive la Teoria della proprietà, pubblicata postuma, ad un anno dalla morte (Proudhon muore nel 1865), non è che neghi il primo, ma certo lo supera. La proprietà, intesa come uso privato ed esclusivo da parte di chi la utilizza tramite il lavoro, non solo non dev’essere eliminata, ma deve essere mantenuta e rafforzata, perché essa è l’unico mezzo, l’unica arma, l’unica barriera per tenere a freno lo Stato. Il potere politico dello Stato si ferma laddove c’è la proprietà, quella proprietà che dà significato e forma alla società civile attraverso il lavoro. In Proudhon, infatti, viene mantenuta la separazione tra società civile e società politica e la società civile si difende dal potere invadente dello Stato attraverso la resistenza di tante proprietà, veri contrafforti. Per Marx è il contrario: la società civile deve essere annullata dentro la società politica e poi entrambe annulla ...[continua]
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