Lettera di Jovan Divjak al Presidente della Bosnia Erzegovina, Alija Izetbegovic - 18 novembre 1998


Egregio Izedbegovic,

 le comunico la mia decisione di restituire il grado di generale di brigata al quale ero stato promosso nel dicembre del 1993. Eccone i motivi: La pubblicazione di documenti ufficiali che mostrano come membri dell'esercito della Bosnia Erzegovina abbiano ucciso dei civili a Sarajevo, e di testimonianze di singoli individui sui crimini commessi a Grabovica, Uzdol, Doljani etc... Tutto ciò rappresenta una ferita profonda nella mia coscienza e per i valori in cui ho sempre creduto. So benissimo che reparti della JNA, volontari provenienti dalla Serbia e dal Montenegro, paramilitari serbo-bosniaci e l'esercito della Republika Srpska hanno ucciso, sgozzato, violentato, bruciato e distrutto tutto ciò che non era serbo. Ho parlato del genocidio commesso contro il popolo bosniaco in una decina di conferenze in Europa e negli Stati Uniti.

Chiamato a testimoniare sull'assedio di Sarajevo, ho parlato dei 10500 cittadini uccisi, tra cui 1600 bambini e ragazzi, caduti sotto il fuoco dei cecchini e dell'artiglieria pesante. Nemmeno mi passava per la testa, allora, che membri dell'esercito della Bosnia Erzegovina avessero potuto commettere dei crimini. Mi fidavo di quello che lei diceva e che confermavano i politici, i rappresentanti delle comunità religiose, i funzionari e gli stessi ufficiali. A suo avviso come dovrei reagire quando, nella deposizione di uno dei membri dell'esercito della Bosnia Erzegovina (multinazionale, multietnico, multiculturale) leggo le seguenti parole: "Portammo dei cecchini in una cantina, li pestammo a pugni e a calci. Poi li uccidemmo e con una sciabola decapitammo Nikolic". (...)

Le ricordo che il 27 maggio 1993 inviai una lettera allo Stato Maggiore, nella quale dicevo di volermi dimettere a causa di quanto era successo a Sarajevo. Alcuni cittadini erano stati minacciati di morte e cominciavano a trapelare notizie sui delitti commessi nel quartiere che era sotto il controllo della X brigata comandata da Caco. Lei mi rispose che le informazioni di cui disponevo non erano esatte, e che se si fossero appurati dei crimini, sarebbero state prese decisioni appropriate. Ma purtroppo questi crimini non vennero sanzionati, e anzi si moltiplicarono a partire dall'ottobre del 1993. Le ricordo inoltre la mia lettera di protesta a proposito dei funerali di Caco e la sua risposta. Se l'esercito della Bosnia Erzegovina ha nascosto i crimini commessi contro dei civili (…) e non li hanno puniti come si doveva, il mio imperativo è di prendere le distanze dal comportamento di chi occupa le più alte cariche dello Stato.

Come protesta e segnale di disaccordo contro questi comportamenti (...) restituisco le stellette di generale di brigata. In questi ultimi giorni lei ha promosso a generale numerosi ufficiali dell'esercito. Credo che non tutti meritino tale promozione, in quanto sprovvisti di quelle qualità professionali, tecniche, etiche e umane che dovrebbero essere premiate da questo avanzamento gerarchico. Il loro contributo alla difesa del Paese durante la guerra e alla resistenza fu pressoché nullo. Alcuni di questi ufficiali gestivano una specie di "prigioni private”, fatto conosciuto dal Comitato internazionale della Croce Rossa. Nel trattamento dei civili non hanno rispettato la Convenzione di Ginevra e si sono rivelati dei profittatori di guerra. Senza dubbio alcuno, il mio nome non figura in questa lista, accanto a simili personaggi.

Sono certo che è stato informato del mio forzato pensionamento e di quello di altri sei generali dell'esercito di cui lei è il comandante. Ma non so se lei si ricordi del fatto che io entrai come volontario della Difesa territoriale, prima degli attuali capi dell'esercito. Fui anche protagonista degli eventi del 3 maggio 1992, in via Dobrovoljacka, quando intervenni per garantire la sua sicurezza e impedire che i soldati della JNA sparassero. (…) Per i nazionalisti serbi ero un fastidio, "sabbia negli occhi” perché ero rimasto "nell'esercito di Alija”. Lei mi invitò a seguirla a New York, dove fui presentato come chi incarnava il multinazionalismo dell'esercito della Bosnia Erzegovina. In una quindicina di Paesi, ho parlato dell'aggressione contro il nostro Paese, del genocidio, dell'etnocidio, dell'urbicidio. E ho detto le stesse cose davanti al tribunale dell'Aja (…).  So di non aver "venduto” la Bosnia e di non aver tradito i miei ideali.

Per tutto questo (...) mi aspettavo qualcosa di più da parte sua: un gesto cordiale di ringraziamento alla fine della mia carriera militare nell'esercito della Bosnia Erzegovina. (…) Non sono mai stato veramente accettato nell'esercito, e in ogni caso non come avrei dovuto esserlo per le mie capacità professionali. Oggi, dubito che lei abbia mai avuto fiducia in me. Stando così le cose, mi sembra del tutto fuori posto mantenere il grado di generale di brigata. Sono orgoglioso della decisione presa nell'aprile 1992 e che fu di sicuro la più importante della mia vita, ovvero di battermi per quell'idea di Bosnia definita nel programma della Presidenza della Repubblica. Per quest'idea e per la Bosnia Erzegovina continuerò a battermi per tutta la vita (...)

Jovan Divjak

Tratto da Sarajevo Mon Amour, prefazione di Paolo Rumiz, Infinito Edizioni, 2007.
Si ringrazia Infinito Edizioni per la cortese concessione.