Era vero, ma non del tutto. L’Estetica crociana tendeva a sistemare, sistematizzare, recintare la specificità dell’arte rispetto alla filosofia, alla scienza, alla morale e alla politica: cosa che nel Novecento verrà spesso contraddetta, perché l’arte vorrà essere anche e a suo modo filosofica, scientifica, morale o anche politica.
Croce amava le distinzioni e la chiarezza, temeva l’irrazionalismo, il vitalismo, l’attivismo e il culto della giovinezza vista come l’età più creativa e libera della vita. Non era disposto ad accettare neppure due suoi coetanei come D’Annunzio e Pirandello: né l’estetismo della parola e l’estetismo della vita del primo, né il cerebralismo e l’individualismo tendenzialmente nichilistico del secondo, entrambi totalmente immersi nel clima di una modernità pericolosamente (secondo Croce) ostile all’equilibrio razionale.
Bisogna comunque notare che l’ottocentesco, il classicistico, il razionalistico Croce nella sua Estetica, che fu uno dei suoi libri più influenti, teorizza l’arte come "liricità”, la poesia come "intuizione lirica”, una forma pura e fondamentale della conoscenza, ma ben distinta dall’altra, cioè dal concetto. L’intuizione, secondo Croce, ci mette in contatto con il sensibile, con il mondo dei fenomeni che si percepiscono, mentre il concetto, caratteristico della filosofia, dà forma al pensabile. La poesia, inoltre, non ha a che fare con la pratica, non ha scopi fuori di sé, è pura e disinteressata contemplazione. È un’intuizione che, secondo la sua teoria, è immediatamente espressione, perché altrimenti sarebbe informe e indefinibile.
È quest’ultimo il punto più debole che è stato notato nell’estetica di Croce: se l’intuizione lirica è anche di per sé espressione, c’è identità fra estetica e linguistica. Il che risulta assurdo soprattutto se si tenta di immaginare qualunque parlante come creatore della lingua che parla. La linguistica del Novecento ha insistito sul fatto che la lingua è un codice, un sistema di segni socialmente cristallizzato che viene "attuato”, non inventato, in ogni singolo atto linguistico. Parlando non creiamo, adoperiamo a modo nostro un utensile già costruito.
Ciò che però più interessa in questo discorso sulla lirica italiana all’inizio del Novecento è che, definendo la poesia pura intuizione svincolata sia da concetti che da fini pratici e comunicativi, Croce sembra che teorizzi, magari senza volerlo, l’estrema individualità espressiva della poesia moderna, la sua frequente indifferenza alle costruzioni architettoniche e alla durata, agli svolgimenti discorsivi, narrativi, riflessivi. Come critico, Croce cerca di distinguere nelle opere dei poeti fra ciò che è poesia e ciò che è non-poesia, ma struttura di pensiero o finalità pratica, cioè oratoria o pedagogica o altro. La poesia autentica è per lui, anche in vasti poemi come quelli di Dante o Ariosto o Tasso, solo quella che si concentra con speciale intensità sintetica in certi momenti isolati. Sembra proprio che una poesia davvero del tutto priva di mediazioni discorsive, assolutamente intuitiva e sintetica, pura intuizione che è subito espressione, come "M’illumino / d’immenso” di Ungaretti, sia stata scritta per illustrare esemplarmente l’estetica di Croce. Il filosofo così spesso rimproverato per il suo classicismo e razionalismo, così lontano dall’individualismo delle arti novecentesche, è stato il primo e maggiore responsabile filosofico, in Italia, della "poesia pura”, della poesia ridotta a frammento, illuminazione improvvisa e momentanea: universale proprio nel suo essere individuale.
Non è che i poeti italiani di primo Novecento (e più tardi gli "ermetici” degli anni Trenta) fossero volontariamente, programmaticamente crociani, tutt’altro. Ma di fatto lo spirito del tempo, se per ipotesi esiste, accomuna il "padre” Benedetto Croce e gli "orfani” Campana, Sbarbaro, Palazzeschi, Ungaretti, questi estremisti della concentrazione lirica per necessità psicologica, per smarrimento storico. Mentre invece Gozzano, Moretti, Saba sembrano appartenere a un’altra famiglia nel loro ist ...[continua]
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