A Dujis, cento chilometri a nord ovest da Garissa, strada pessima, circa due ore e mezzo per arrivare. Tre cantieri stradali cinesi in mezzo al nulla: cammelli, capre, qualche vacca, ma anche giraffe, dik dik, antilopi e appunto cinesi, col berretto a falde larghe e tendine laterali, treppiede e misuratori, con scorta armata. Nelle loro mani il futuro infrastrutturale del nord-est del Kenya. Anche noi con scorta: quattro militari, giusto quelli che entravano in una seconda macchina. Cifra tonda: cinquemila scellini, mille al capo rimasto in caserma e il resto agli altri. E così si fa giornata. Dujis, fino a qualche giorno fa quattromila abitanti, oggi quaranta. Gli altri sono scappati tutti. Non Al Shabaab questa volta ma un clan rivale, per questioni di acqua e altre in sospeso da sempre. Impressionante, tutte le case in muratura bruciate e quelle di fango rase al suolo. Cenere ovunque e in mezzo suppellettili, piatti di alluminio, brocche, una bilancia, una macchina per cucire. Una fuga precipitosa. Bashey, che ci accompagna, dice che c’era un ottimo ristorante a Dujis. Nello spaccio semidistrutto gli asini mangiano il riso sparso per terra tra le scansie per la mercanzia. Scuola e centro sanitario intatti ma chiusi e saccheggiati. Rimangono solo le reti dei letti a castello del dormitorio degli studenti e qualche quaderno abbandonato in fretta. Una postazione dell’esercito con due mezzi blindati. Militari sparpagliati per il paese e qualche abitante che ancora raccoglie le ultime cose e si allontana tra i cespugli col fagotto. Di qui a poco si aspettano ritorsioni.
Al Shabaab strumentalizza gli scontri interclanici per reclutare giovani vendicativi.
Il giorno dopo a Fafi, questo invece sempre a un centinaio di chilometri ma verso il confine con la Somalia. La strada di terra meno rovinata della prima; dev’essere passata una ruspa dopo la stagione delle piogge. Quattro case e una moschea nel niente a 40 gradi. Qui Al Shabaab ha colpito due volte, l’ultima delle quali uccidendo un soldato e facendo esplodere la residenza della pattuglia. Risultato: insegnanti (tranne uno) e personale sanitario scappato a gambe levate. Molti studenti non sono tornati a scuola. È rimasto solo un maestro di Eldoret a stipendio di una ong keniota: Eliud Ktoo, un eroe, o qualcuno che davvero non ha alternative. Al presidio medico un giovane del posto cerca di darsi da fare con le conoscenze che ha acquisito come assistente del personale sanitario prima che scappasse. Naturalmente niente medicine. Niente vaccini da un anno. Completamente abbandonati e alla mercé delle milizie, incazzati, forse più col governo che con i terroristi. In pericoloso allineamento con la strategia di Al Shabaab. Però Farah Alì mi guarda sorridente con l’occhio opaco dalla cataratta e dice, in perfetto inglese, che la comunità è unita e i miliziani non l’avranno vinta. In nessun modo acconsentiranno a un reclutamento. Con loro, dice, non ci sediamo, e non si dialoga.
I miliziani sono arrivati in trenta nel tardo pomeriggio. Volevano bruciare anche il centro sanitario, ma gli uomini sono usciti dalla moschea e hanno cominciato a urlargli contro. Naturalmente gli studenti del convitto, gli insegnanti e il personale medico se ne sono andati il giorno dopo.
Il vecchio mi chiede cosa vogliamo come "ricompensa” nel caso il filmato produca dei benefici al villaggio. Gli rispondo in maniera politicamente corretta, del tipo servizio pubblico, lo facciamo per la gente, ecc., ecc., e dentro di me penso che quella domanda è già una ricompensa.
E oggi a Garissa. Cerimonia di commemorazione della strage, 2 aprile. La lapide fa il suo effetto; a parte il macabro dorato dell’arte funeraria, la lista dei nomi restituisce parte dell’orrore. L’ultimo, il 148° ha solo un nome (o un cognome), ed è stato aggiunto dopo. Lo si capisce dal diverso font con cui è scritto e l’incertezza nel seguire una linea retta. Scritto a mano, si direbbe: "148 - Masinde”. Una vaghezza e un mistero molto africano. Viene voglia di indagare la sua storia. Leggo i nomi sulla lapide come mi capita spesso con i monumenti ai caduti dei nostri paesi. L’analogia è piuttosto impressionante perché la lista è lunga come può esserla quella di un nostro centro urbano. La maggior parte ragazze.
Il "Daily Nation” lancia già i suoi articoli on line in cui parla di centinaia di partecipan ...[continua]
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