Il Novecento è stato fin dall’inizio un secolo di programmi e di autointerpretazioni, un secolo che ha creato o spinto il mito della creatività moderna fino all’estremo limite. Ma più che creare, si è proposto di farlo, e ha elaborato metodi, teorie, progetti per liberare, incoraggiare, pianificare la creatività artistica. Essendo stato anche il secolo delle masse e dell’organizzazione, si trattava di unire e giustificare un “individualismo per tutti” e una creatività il più possibile accessibile a tutti. L’industria culturale, uno dei fenomeni più caratteristici del Novecento, ha prodotto merci estetiche adatte al consumo di massa. Questo fatto aveva bisogno di un’ideologia, di un immaginario e di metodi produttivi in cui la libertà da norme ereditate fosse considerata un valore primario, benché la realtà sociale e politica programmasse e organizzasse il controllo delle libertà individuali, un controllo che nei totalitarismi sarebbe stato politico e statale, propagandistico e poliziesco, mentre nelle liberal-democrazie ha dovuto essere più mascherato e indiretto, affidato in prevalenza al mercato, al consumo di beni culturali e a quella che è stata definita “industria della coscienza”: intrattenimento, informazione, igiene, moda, sport.
Anche la cultura delle élite partecipò efficacemente e “creativamente” alla massificazione pubblicitaria attraverso la formazione di avanguardie artistiche e letterarie. L’Italia, già da qualche secolo paese arretrato e sofferente di un “complesso dell’arretratezza”, apparve però in prima linea all’inizio del Novecento. Lo fu in arte con il futurismo di Filippo Tommaso Marinetti e poco dopo in politica con il fascismo di Benito Mussolini. Senza dubbio Marinetti mise a punto uno stile, una moda, un modello estetico che in parte anche Mussolini avrebbe adottato. La nuova destra estremista nacque in funzione anticomunista, antidemocratica e antiborghese con uno stile esibito come “rivoluzionario” e adatto ai giovani (Giovinezza è una famosa canzone fascista).
Il fascismo si presentava infatti come un futuro velocemente, violentemente ostile al passato: e la velocità era il “cuore meccanico” dell’estetica futurista. Ma più che di semplice estetica in Marinetti si vedevano in atto sia una politica dell’estetica che un’estetica della politica. Nel suo primo manifesto del futurismo, pubblicato a Parigi sul “Figaro” il 20 febbraio 1909, si legge:
“Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”.
Un mese dopo, in un’intervista, Marinetti aggiungeva: “Credo che i popoli debbano seguire una costante igiene di eroismo e fare in ogni secolo una gloriosa doccia di sangue”. Più tardi, nell’introduzione al suo Zang Tumb Tumb, poema fatto di “parole in libertà” uscito nel 1914, definiva la guerra “collaudo sanguinoso e necessario della forza di un popolo”.
Dunque, modernizzazione estetico-politica come provocazione estrema, sfrenato irrazionalismo, ottusità, apologia pubblicitario-propagandistica della peggiore politica, la politica della violenza e del massacro di stato. Il provocatore d’avanguardia nasce così come inventore di una retorica modernamente aggiornata al servizio di ogni nazionalismo bellico.
Può sembrare strano e incongruo: ma la forma letteraria del manifesto è stata una delle più tipiche ramificazioni e sottocategorie della saggistica, cioè della prosa di pensiero, della prosa di idee. Capolavoro e insuperabile esempio di questo genere comunicativo era stato, nel 1848, il Manifesto del Partito Comunista, scritto dai giovani Marx e Engels, passato quasi inosservato al momento della sua pubblicazione, ma presto divenuto celebre. Le forme comunicative più efficacemente militanti del movimento operaio organizzato avevano elaborato un modello che nel Novecento fu usato anche dai gruppi artistici e letterari. Le avanguardie nacquero come piccoli partiti o sindacati o gruppi di pressione e di autopromozione degli artisti e di un’arte nemica dell’arte “borghese e accademica”, un’arte anti-arte o critica attivistica di ogni arte in precedenza praticata e accettata.
Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista pubblicato nel 1911 Marinetti stabiliva i precetti, le norme, i metodi di fabbricazione dei testi poetici che avrebbero scavalcato il passato e il presente per anticipare e garantirsi il monopolio del futuro. Così, il senso della continuità storica necessaria teorizzata dalle filosofie storiciste (materialiste o idealiste) veniva sbrigativamente spostato in un futuro privo di passato. L’artista, lo scrittore futurista rifiuta persino il passato moderno del Settecento e dell’Ottocento in nome di un futuro precostituito, visto come inevitabile. Marinetti interpretò, inventò una letteratura che non c’era ma doveva esserci e il cui valore di adeguatezza al presente veniva dato per indiscutibile:
“In aereoplano, seduto sul cilindro della benzina, io sentii l’inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero. Bisogno furioso di liberare le parole, traendole fuori dalla prigione del periodo latino! Questo ha naturalmente, come ogni imbecille, una testa previdente, un ventre, due gambe e due piedi piatti, ma non avrà mai due ali. Appena è necessario per camminare, per correre un momento e fermarsi quasi subito sbuffando! Ecco che cosa mi disse l’elica turbinente, mentre filavo a duecento metri sopra i possenti fumaiuoli di Milano:
1. Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso, come nascono.
2. Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all’infinito può solo dare il senso della continuità della vita e l’elasticità dell’intuizione che la percepisce”.
E dopo aver prescritto anche l’abolizione dell’aggettivo, dell’avverbio e della punteggiatura, il manifesto paragona “una trincea irta di baionette a un’orchestra, una mitragliatrice ad una donna fatale”. Ma ecco un paio di altri punti programmatici:
“10. Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto dell’intelligenza cauta e guardinga bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine.
11. Distruggere nella letteratura l’‘io’, cioè tutta la psicologia. L’uomo completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e ad una saggezza spaventose, non offre assolutamente più interesse alcuno”.
La materia (preferibilmente inorganica) e la macchina devono sostituire gli esseri umani. La letteratura va fatta con “oggetti in libertà”, “motori capricciosi”, “torme di molecole in massa”, “turbini di elettroni”: “Il calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante, per noi, del sorriso o delle lagrime di una donna”. Bisogna abbracciare i “movimenti della materia”, “fuori dalle leggi dell’intelligenza”.
Le idee futuriste si rovesciano in distruzione metodica dell’intelligenza. Sembra che anche Gabriele D’Annunzio, la cui estetica sensualistica e orgiastica era diversamente precorritrice della cultura fascista, abbia definito Marinetti “un cretino con qualche lampo di imbecillità”.
Ma il giudizio sul Futurismo o marinettismo non può limitarsi ai suoi aspetti politici. Nella sua frenesia attivistica, nella sua gestuale teatralità, Marinetti precorre, più di D’Annunzio, alcune caratteristiche costanti delle arti novecentesche e perfino di una psicologia di massa distruttiva e autodistruttiva che si è mostrata indissolubilmente connessa con il culto della macchina, idolo di un superumano che doveva essere anche postumano.
Essere una macchina sembra divenuto oggi un desiderio, un sogno che dilaga. I produttori di macchine lo sanno, lo hanno messo in programma. L’avanguardia di Marinetti pubblicizzava l’industria e propagandava in anticipo le guerre nazionaliste, le conquiste coloniali e lo squadrismo fascista. Era un’avanguardia che dava alla futura politica autoritaria di massa un’estetica nuova. Dal Futurismo vennero pittori di prim’ordine come Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Carlo Carrà. In letteratura fu il nulla: il meglio venne dall’ironia, malinconia, comicità anarchica e ludica di Aldo Palazzeschi, che nella famosa poesia Lasciatemi divertire si comporta da futurista nella forma dell’autoparodia: il poeta saltimbanco si diverte, ma nella piena coscienza della propria patetica, socialmente incomprensibile o insensata libertà.
Niente di più lontano da Marinetti. Nato nel 1876 ad Alessandria d’Egitto passò la giovinezza a Parigi, capitale e più prestigioso teatro artistico e intellettuale europeo. Del tutto naturalmente aderì al fascismo, che gli conferì il titolo di accademico d’Italia. Morì nel 1944 dopo aver aderito alla Repubblica di Salò. Il suo contributo all’alleanza paradossale, insostenibile, fra spirito di rivolta, estetica della violenza e culto del potere, resta fondamentale e rispecchia uno dei tratti caratteristici della cultura novecentesca. Mentre Karl Kraus, da Vienna, lavorava a demolire le stupidità criminose e criminali del nuovo secolo con l’intelligenza al quadrato dei suoi aforismi, Marinetti da Parigi e da Milano diffamava e demoliva l’intelligenza a colpi di stupidità.