Cari amici, benvenuti nell’isola appestata...
Ci ritroviamo sospesi in un limbo imprevedibile, in un purgatorio turbolento con brevi momenti di grazia regalatici da individui che giganteggiano rispetto alle persone spaventose che non riescono a governarci e invece gettano il popolo in pasto ai lupi... Sembra di essere sprofondati nei secoli passati, quando si poteva anche ignorare il concetto di salute e nei circoli dei galantuomini si discutevano le idee malthusiane davanti a un buon sigaro e un bicchiere di Porto. I poveri biasimati per la loro sprovvedutezza, così fragili e inclini ad ammalarsi... Che miseria morale! Fa tutto molto “Diciannovesimo secolo”. Tipico di Johnson.
Ci rifiutiamo di credere a ciò che è ormai evidente, cioè a dove ci sta conducendo questo governo con quell’accozzaglia di messaggi contrastanti che ha preso il nome di “Giornata della Libertà” (e quant’è offensivo quest’uso della parola libertà): il 19 luglio, quando ci saranno le riaperture; il tutto all’insegna della bizzarra convinzione che i contagi non contino.
Gabriel Scally, visiting professor di Salute pubblica dell’Università di Bristol nonché presidente della sezione di Epidemiologia e Salute pubblica della Royal Society of Medicine, al briefing dello scorso venerdì del gruppo di divulgazione Indie Sage (lo trovate su YouTube) ha detto senza mezzi termini che riaprire i locali notturni è “immorale, contrario all’etica”. Secondo il professor Stephen Reicher, che insegna psicologia sociale alla University of St. Andrew, il messaggio con cui il governo lascia intendere che “i contagi non contino più […] e la retorica della libertà, e la retorica secondo cui i contagi non siano più un problema ci porteranno a un altro lockdown. Ma la realtà è che i contagi, invece, sono importanti, e rovinano le vite delle persone”.
Nel nostro mondo “attraverso lo specchio”, per dirla con Carroll, alle persone è stata data la facoltà di decidere se indossare la mascherina o meno, se essere egoisti o meno, se gettarsi a capofitto nei luoghi affollati o meno, respirandosi addosso, se ballare e sudare tutti ammassati sotto le luci della discoteca o meno. I numeri mi spronano a propendere per l’indossare la mascherina, ma ci sono quelli che scelgono di disinteressarsene, e che anzi insultano chi la porta, noi, la maggioranza che ha scelto di continuare a seguire le precauzioni e ad assumersi le proprie responsabilità, dal momento che il governo, invece, sembra deciso a proseguire nel suo criticatissimo piano di perseguire l’immunità di gregge attraverso i contagi, come fossimo pecore. È una nuova trincea culturale, e certo non ne sentivamo la mancanza, avendo appena passato la Brexit. Le attività commerciali ora possono scegliere se far indossare o meno le mascherine ai propri dipendenti che hanno a che fare con il pubblico, lasciando così la loro sicurezza alla mercé del cliente che potrebbe decidere di fare “il bravo”, o meno. La scorsa settimana, prima che le scuole chiudessero, erano un milione i bambini costretti a casa per essere stati a contatto con qualcuno che aveva contratto il virus. E ora, come abbiamo appreso da un articolo pubblicato sul “Lancet” (bit.ly/36YEftx), chi ha contratto il Covid può incorrere in problemi cognitivi permanenti, e questo non dipende da quanto il Covid ci abbia fatto stare male; è sufficiente averlo preso, per vedersi ridotte le capacità mentali. Non è un problema da poco, che si risolverà da solo, né un qualcosa che persino l’opinione pubblica più distratta possa facilmente trascurare, e neppure un dato che possa essere manipolato o negato.
Tutto ciò mi porta a pensare a uno di quei fili di ribellione e speranza che corrono attraverso i secoli e i continenti. Nel 1893, quando aveva 53 anni, Lorina Bulwer venne rinchiusa in un ricovero da suo fratello. Classificata come “pazza”, venne messa a raccogliere stoppa per dieci ore al giorno, un compito particolarmente sgradevole, faticoso, insalubre: disfare vecchie funi per ricavarne di nuove. Lorina riuscì in qualcosa di eccezionale: con quella stoppa ricamò parole piene d’astio, sfogando così tutta la propria rabbia e frustrazione per essere stata rinchiusa. Erano veri e propri ricami nei tessuti, e diedero origine a una tradizione di protesta. In Cile, sotto la dittatura di Pinochet, le donne ricamavano trapunte per denunciare il destino dei desaparecidos. Quando subentrò l’instabilità economica, molte di quelle trapunte vennero vendute anche all’ ...[continua]

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