In quanto concezione e ideologia politica fondata sul principio della libertà individuale, il liberalismo dovrebbe essere propizio alla pratica autobiografica. Che cosa sono la libertà individuale e il suo esercizio senza un individuo consapevole della propria vita? Ma se quell’individuo è un filosofo e se la filosofia tende a universalizzare piuttosto che individualizzare pensiero e coscienza, allora può succedere che il filosofo liberale risulti poco adatto all’autobiografia. È il caso di Benedetto Croce. Il suo famoso scritto del 1915 Contributo alla critica di me stesso, composto quando l’autore era alle soglie dei cinquant’anni, si apre con queste caute premesse:

Sono entrato nell’ultimo anno del decimo lustro, e mi giova, nella pausa ideale indetta nel mio spirito da questa data, guardare indietro al cammino percorso. (...)
Ma io non traccerò né confessioni, né ricordi, né memorie della mia vita. Confessioni, ossia esame morale di me stesso, no, perché quanto stimo utile confessarsi in ogni istante, cioè procurare chiarezza a se stessi nell’atto dell’operare, altrettanto mi pare inutile esercitare un giudizio universale sulla propria vita. Rimosso l’unico fine di riconoscersi degni o indegni del paradiso e del purgatorio, queste confessioni generali non vedo a che cosa servano, se non forse alla vanità dell’individuo: vanità, o che l’individuo si compiaccia di sé medesimo, o che si accusi e condanni e gema, perché in ambo i casi egli si reputa cosa troppo più importante che in effetto non sia. (...)
E ricordi nemmeno, perché il passato mi riempie bensì di affetti e di malinconia, ma io non terrei lecito di mettere questi miei sentimenti sulla carta se non nel caso che mi presumessi poeta, ossia che quei sentimenti formassero centro di attrattiva del mio essere e oggetto delle mie migliori virtù spirituali. E certamente il passato mi fa sovente sognare; ma di brevi e rapidi sogni, presto ricacciati indietro dalle necessità del mio lavoro, che non è di poeta.
(...) E, infine, non memorie, perché le memorie sono cronache della nostra vita e di quella degli uomini coi quali abbiamo collaborato o che sono stati da noi osservati e conosciuti, e degli avvenimenti ai quali abbiamo partecipato; e si scrivono quando si reputa di poter serbare ai posteri alcune importanti notizie che altrimenti andrebbero perdute. Ma la cronaca della mia vita, in ciò che può presentare di ricordevole, è tutta nella cronologia e nella bibliografia dei miei lavori letterari; e, non avendo partecipato né da attore né da testimone ad avvenimenti di altra sorta, non ho nulla o ben poco da dire sugli uomini da me conosciuti e sulle cose che ho visto.
Che cosa scriverò, dunque, se non scriverò né confessioni, né ricordi, né memorie? Mi proverò semplicemente ad abbozzare la critica, e perciò la storia di me stesso, ossia del lavoro che, come ogni altro individuo, ho contribuito al lavoro comune.

Lette queste premesse a un saggio di critica di se stesso, viene da chiedersi che tipo di individuo pensi di essere un individuo che con tanta cura analitica cerca di cancellarsi come individuo. Croce è stato infatti non solo un filosofo sistematico neo-idealista (nel senso che riprende e riattualizza la filosofia del massimo teorico tedesco dell’idealismo che era stato Hegel): perché oltre che filosofo Croce è stato anche uno dei massimi storici e critici letterari europei dei primi decenni del Novecento. Ma la storiografia e la critica letteraria non possono certo sottovalutare la singolarità concreta delle personalità individuali. Eppure la storia e la letteratura sono concepite da Croce come “attività dello spirito” nelle quali l’individuo, più che individualizzarsi, si trascende, si supera, si sublima, si universalizza, si idealizza fino al punto di ridurre se stesso a oggetto di studio storico-critico senza quasi riconoscersi come soggetto la cui esistenza abbia un carattere e un significato specifici.
Che filosofo liberale può essere un tale individuo? La risposta, in breve, potrebbe essere questa: la storia dello storicismo idealistico di Croce è interessata solo alla storia di un’idea e questa idea, unica sostanza di cui è fatta la storia, è la “libertà dello spirito”, dello spirito umano nella sua generalità, al cui interno ogni singolo individuo ha il dovere di immergersi e sparire, per potersi riconoscere. Nei suoi saggi di storiografia e di critica letteraria, Croce non manca affatto di concretezza, e anzi manifesta una precisa avversione nei confronti di quelli che considera ideali astratti: per esempio la democrazia umanitaria e filantropica propria dell’Illuminismo. Eppure l’etica del suo storicismo idealistico gli impone di lavorare alla “critica di me stesso” rinunciando a confessioni, ricordi e memorie.
Sorprende il fatto che Croce, pur di negare la rilevanza di memorie, ricordi e confessioni, arrivi a denigrare con sprezzante ironia moralistica coloro che, diversamente da lui, non hanno affatto ritenuto irrilevanti, futili e fatue quelle forme di autocoscienza. Che cosa sarebbe l’intera storia della letteratura occidentale senza autobiografie fatte di confessioni, di ricordi e di memorie? In Italia, per fare solo gli esempi più lampanti, almeno Petrarca, Cellini, Alfieri, Nievo. E le confessioni di sant’Agostino, di Montaigne e di Rousseau? Davvero, come dice Croce, “l’individuo è poca cosa per sé, fuori del tutto”? E poi, come si può concepire l’esistenza di qualunque individuo, anche il più modesto, appartato e isolato, come “fuori del tutto”? Se lo si isola dal “tutto”, lo si astrae, lo si smaterializza, lo si priva di realtà individuale?
Croce riduce la confessione niente di meno che a “vanità”, a compiaciuta autoindulgenza: e non gli vengono in mente narratori da tempo famosi in Europa come Tolstoj, che ha fatto della confessione morale il presupposto della sua opera narrativa, nonché come principio critico avverso alla propria narrativa, avendo considerato fin da giovane un maestro proprio Rousseau. Inoltre la troppo netta distinzione stabilita da Croce fra poesia e prosa, fra intuizione lirica e razionalità concettuale, lo porta a sottovalutare quella prosa autobiografica nella quale le confessioni sono presenti. Non ci si confessa, come dice Croce, “con l’unico fine di riconoscersi degni o indegni del paradiso e del purgatorio”: esiste ovviamente un giudizio e un bilancio morale della propria vita che possono del tutto ignorare la vita eterna in qualcuno dei suoi aldilà.
Dunque non si capisce perché niente confessioni. Ma perché sarebbe improprio, se non poco decente, per il filosofo liberale, avere dei ricordi utili a una critica di se stessi. Eppure Croce vieta i ricordi a qualunque individuo che non sia un poeta: perché dire ricordi non vuol dire altro che “affetti” e “malinconia”, due cose che non possono, non debbono avere a che fare con le “migliori virtù spirituali” della persona. I ricordi possono solo far sognare “brevi rapidi sogni” che vanno virtuosamente “ricacciati indietro dalle necessità del mio lavoro, che non è di poeta”. Come se quello del poeta fosse un lavoro specializzato e l’avere ricordi non fosse naturale e utile per chiunque.
Il “se stesso” di Croce non smette di autoridursi, autolimitarsi e svuotarsi di contenuti particolari per ascendere asceticamente verso la pura dimensione dell’etica lavorativa, la sola che abbia essenzialmente a che fare con lo spirito.
Non basta. C’è in Croce una specie di accanimento morale contro l’individuo. Eliminati i ricordi in quanto affettività riservata al lavoro di poeta, Croce vuole escludere e allontanare da sé anche le memorie, narrativamente intese come genere letterario. Le memorie sono lecite per Croce solo nel caso che contengano “importanti notizie” da trasmettere proficuamente ai posteri: avrebbero cioè un valore strettamente utilitaristico, benché si tratti di un’utilità storiografica. Stranamente, un critico letterario come Croce trascura in questo caso l’utilità della letteratura memorialistica in quanto letteratura, come se della letteratura la storiografia potesse e dovesse fare a meno. Ma che cosa sarebbe la nostra conoscenza e coscienza della storia e del passato senza la letteratura e perfino senza quella particolare forma di narrativa che sono le memorie, anche quando non riguardano la vita di individui pubblicamente rilevanti? Le memorie di un operaio, di un impiegato, di un’infermiera, di una maestra d’asilo, di un medico di provincia, sarebbero prive di interesse storiografico e non sarebbero un mezzo per trasmettere “importanti notizie” sul passato?
Quello dell’autoesame critico della propria vita secondo Croce è un vero paradosso: il filosofo e storico liberale, il critico letterario e il teorico dell’estetica che fu centrale nella cultura italiana per circa mezzo secolo, svaluta l’individuo, quasi si vieta di esserlo. C’è da chiedersi se il cosiddetto individualismo borghese e filosofico sia stato sufficientemente e onestamente consapevole e rispettoso degli individui. Più probabile, più realistica, più storicamente fondata sembra l’idea che tutti i veri individualisti siano stati sempre antiborghesi e spesso antifilosofici, critici della classe sociale borghese e della forma di sapere detta propriamente filosofica.
In effetti Croce ha costruito la sua filosofia combattendo o ignorando sia il positivismo filosofico che le scienze della società e della psiche, sia le filosofie dell’esistenza che il cosiddetto irrazionalismo della letteratura moderna, sia le religioni che le scienze naturali. Forse il suo maggiore merito è stato l’antifascismo. Ma nella sua seria e severa denigrazione dell’io che non astrae dai suoi sentimenti e dalle sue esperienze personali, Croce mima una “saggezza superiore” di tipo ascetico, se non mistico, cosa che in un moderno pensatore liberale e storicista, in un critico letterario e in un teorico dell’arte finisce per essere un moralismo anacronistico e una sacralizzazione impropria della borghese etica del lavoro applicata al lavoro filosofico-letterario.