Umberto Saba, che per il suo stile poetico è così singolarmente antinovecentesco e tradizionalista, e che irride il Novecento dicendo che non aspirava ad altro che arrivare al Duemila, è stato invece, in prosa, un intellettuale d’avanguardia. Le sue angosce lo portarono precocemente a usare Freud e perfino Nietzsche, che lui definiva, non filosofo, ma psicologo.
Per metà ebreo (ma non conobbe mai suo padre) e nato a Trieste nel 1883, era cresciuto come cittadino dell’impero austro-ungarico, consapevole perciò della cultura centroeuropea. Se il suo Canzoniere, vero e proprio romanzo autobiografico in versi, è ben noto, citato, antologizzato e studiato, le sue prose raccolte sotto il titolo Scorciatoie e raccontini, sono invece ingiustamente trascurate, benché non manchino i loro ammiratori. Guido Piovene, per esempio, disse che “Saba è altrettanto grande come prosatore che come poeta, e tra poeta e prosatore non esiste confine netto”. Nel suo scritto del 1911 intitolato Cosa resta da fare ai poeti, che rimase purtroppo inedito, Saba diceva la cosa essenziale: e cioè che restava da fare “la poesia onesta”. In apparenza fedele alle forme stilistiche tradizionali (metrica regolare, rime e una chiarezza prosastica) Saba è provocatorio, sorprendente e scandaloso proprio per l’onestà del suo pensiero, che non si ferma mai alla superficie delle cose, proprio perché studia e vede bene che cosa le superfici dei fenomeni sanno rivelare. Come ha scritto Silvio Perrella nella prefazione all’edizione di Scorciatoie e raccontini uscita da Einaudi nel 2011, “Saba ha la necessità di abbreviare. I poeti sono fatti così: mettono quanto più mondo possibile nel minor numero di parole possibile. Sono poeti anche quando scrivono in prosa. Non perché cerchino la frase lirica, il tono alto. Al contrario, perché cercano l’essenziale. Perché sono sintetici. Perché gli sta a cuore un’onestà di sguardo”. La quale richiede che si scriva eliminando ogni superfluo, distraente “di più”. E questo modo diretto e vocale di dire le cose rende la prosa aforistica e scorciata di Saba uno degli insuperabili esempi di prosa italiana novecentesca. Montale (anche lui eccellente prosatore e critico, benché diversissimo) ha scritto di queste prose: “Stringate come sono, spesso ellittiche, portano alle estreme conseguenze quello stile parlato ch’è il segreto di Saba prosatore. Hanno le stesse inflessioni della sua voce [...]. Non conosco una prosa meno scritta, non ne conosco altra che risulti così continuamente in presa diretta anche quando la sintassi si aggroviglia e sembra smarrirsi nelle parentesi per poi ricadere a piombo, impeccabilmente”.
Resta da dire che i temi di Saba prosatore sono anche più essenziali. Saba ci parla di storia e di politica rivelandone il rovescio psicologico. Fa ciò che gli storici e i politologi evitano di fare o non sanno fare. Si può perciò cominciare citando quella che forse è la più nota delle scorciatoie, e che riguarda il rapporto degli italiani con la rivoluzione:

STORIA D’ITALIA Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuta in tutta la sua storia -da Roma a oggi- una sola vera rivoluzione? La risposta -chiave che apre molte porte- è forse la storia d’Italia in poche righe.
Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani... “Combatteremo -fece stampare quest’ultimo in un suo manifesto- fratelli contro fratelli” [...] Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione.
Gli italiani vogliono darsi al padre, e avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli.


C’è in queste righe, mi pare, anche una microgenealogia dell’individuo italiano, o dell’italiano come individuo a metà. Per liberarsi delle autorità paterne, cioè del passato, l’individuo deve formarsi prendendosi non solo la libertà, ma anche la responsabilità di occupare il posto avuto dai padri. Deve assumersene l’eredità, reinterpretandola nel presente. L’individualismo italiano sembra incapace di questo: vuole la libertà senza la responsabilità. Dopo aver fatto fuori i fratelli, evita il rischio di impegnarsi con responsabilità di padre.
Ancora a proposito di storia italiana, di certe sue caratteristiche o apparenti misteri, ecco un’altra scorciatoia:

UN AVVOCATO
Un avvocato molto vecchio, molto abile, molto (anche al tempo del fascismo) antifascista, potrebbe tentare ancora questa DIFESA DI MUSSOLINI.
“Voi non sapete -potrebbe dire- voi non potete sapere cosa fosse in Italia la generazione che ha preceduta la sua! Siete troppo giovani per saperlo.
“Fu una terribile generazione di vecchi. I quali una sola virtù avevano: essere inamovibili; un solo compito: impedire ai giovani di occupare anche il più modesto (come si diceva) posto al sole. Io lo vedo di qui uno di quei vecchi (si assomigliavano tutti); lo vedo come fosse ancora vivo e presente. Sedeva immobile in una grande poltrona rossa (‘Dieu, quel etre!’ avrebbe esclamato Stendhal); ascoltava le tue ragioni guardandoti con l’occhio atono e, per la sua fissità, agghiacciante; sembrava nutrire i più profondi, a lui solo accessibili, pensieri: e quel solo pensiero, quella sola volontà aveva: QUI DOVE SIEDO IO, NESSUN ALTRO DEVE SEDERE, IN ETERNO”


In questo caso entra in scena un vero personaggio teatrale o romanzesco, che spiega certe ragioni o radici di un evento patologico con il quale l’Italia anticipò nel Novecento diversi altri paesi. Quando il corso della storia sembra bloccarsi, paralizzato da una sinistra gerontocrazia statale e politico-burocratica, allora l’organismo sociale all’improvviso cerca di ringiovanire cantando “Giovinezza, giovinezza!”. Scorciatoia, questa, che va integrata con un’altra:

TUBERCOLOSI, CANCRO, FASCISMO
Ogni epoca ha la sua malattia, alla quale risponde un’altra (ma è probabilmente la stessa) nel campo morale. L’Ottocento ebbe la tubercolosi e gli sdilinquimenti sentimentali; il Novecento ha il cancro e il fascismo. Tutto il processo del fascismo -manifestarsi della sua vera natura quando è già tardi per un’efficace intervento chirurgico; sua impossibilità di morire se non assieme alla vittima alla quale si è abbarbicato; tendenza a riprodursi in posti lontani dalla sua prima sede; disperate sofferenze che genera in quelli che ne sono colpiti; guasti profondi che si rivelano all’esame necroscopico dei corpi (o paesi) sui quali abbia totalitariamente imperato -tutto, dico, il suo processo ha sorprendenti somiglianze con quello del cancro. Ma in un’altra cosa gli somiglia ancora.
Nessuno ignora oggi che la tubercolosi è, molte volte, uno dei mezzi che i giovani impiegano per suicidarsi. Azzardo l’ipotesi che il cancro (malattia degli anziani) abbia le sue radici psichiche in un tentativo sbagliato dell’organismo per ringiovanire. La formazione di un neoplasma potrebbe significare il desiderio di rifarsi un nuovo organo; p. es, uno stomaco. (Ho comunicata questa mia ipotesi ad alcuni medici intelligenti, i quali ne hanno tutt’altro che riso). Ebbene, che cosa è stata, in fondo, l’adesione al fascismo -in Italia e altrove- se non un tentativo sbagliato della borghesia di rifarsi una vita nuova, di ringiovanire? Troppo tardi si è accorta poi dell’errore; e allora... non c’era più rimedio; la buona cosa, la cosa provvidenziale, che si presentava apportatrice di un “ordine nuovo” recava invece inumane sofferenze; e, a più o meno lunga scadenza, la morte.
L’“Impero Romano” (nel secolo XX!) ebbe -purtroppo per noi- la genesi, i caratteri e le conseguenze di un neoplasma.


È evidente, qui, il metodo e la diagnosi di tipo clinico che Saba adopera per interpretare e smascherare con spietata onestà gli eventi politici e storici. La fisiologia scavalca la storiografia, nel sottinteso generale secondo cui la vita e l’evoluzione del genere umano rispecchiano quelle del singolo organismo individuale. Perciò (e in proposito) si possono subito citare altre due scorciatoie:

A QUELLI che credono ancora che Adolfo Hitler (l’uomo che non poté amare) abbia almeno amata la Germania, racconto qui qual è stato veramente il suo sogno.
Ridurre la Germania un mucchio di macerie; e, fra nuvole di gas asfissiante, rimproverando ai tedeschi di averlo -per colpa degli ebrei- tradito, salire EGLI al cielo, in una specie di apoteosi, circondato dal fiore delle sue più giovani e fedeli Ss.
Questo sogno egli lo ha sognato così profondamente (credendo -oh, in piena buona fede!- di sognarne un altro) che si può dire egli abbia vinta -almeno in parte- la SUA guerra.


Con supremo distacco (che è, appunto, clinico) Saba propone in un lampo visionario la sua diagnosi di Hitler: “l’uomo che non poté amare”, perché amava sé stesso in un’apoteosi di morte e distruzione, che sono, in senso freudiano, un sadismo-masochismo gigantesco e allo stato puro. Una malattia che quell’uomo è riuscito a trasmettere quasi a un intero popolo, perché in quel popolo esisteva già, in altre più tenui forme, allo stato latente.
Quanto al parallelismo fra malattie prevalenti in una data epoca nel corpo umano e patologie sociali, si tratta proprio di una straordinaria intuizione metaforica, cioè in senso lato poetica: come il leone è metafora del coraggio, così il cancro è metafora del fascismo. Un difetto tuttavia si nota, perché non c’è vero parallelismo invece fra gli “sdilinquimenti sentimentali” tipici dell’Ottocento e il fascismo del Novecento. A meno di non pensare che una patologia della sensibilità diffusa in epoca romantica non si sia ahimè trasformata, nel secolo delle macchine e delle masse, in una ben peggiore patologia politica, dentro la quale c’era naturalmente un’inclinazione sociale che scambiava un male per un rimedio al male. Nella crisi borghese di inizio Novecento, suggerisce Saba, covava perciò, anzitutto, una pulsione suicida.
Ma per finire sullo stesso tema ecco le conclusioni:

UOMINI POLITICI
Se io, se tu lettore, si andasse al governo, faremmo -ne sono (almeno per quanto mi riguarda) certo- delle buone leggi. Ma non possiamo (né vogliamo) andarci. Perché? Perché ci manca la volontà di potenza, o quella particolare forma di essa, senza la quale uno né va, né si mantiene, al potere. Abbiamo certamente l’altra qualità necessaria a una azione -in questo senso- utile e costruttiva: l’amore intelligente del nostro paese. Ma, sola, non basta. Né, sola, basta l’altra. L’uomo di stato è -come il grande poeta- raro; deve fondere in sé due qualità (la prima egoistica, “crudele”, captativa; l’altra di dedizione, oblativa) che sembrano -e sono- discordanti e quasi inconciliabili.
La sola volontà di potenza, disgiunta da un sincero amore per l’oggetto (in questo caso il popolo italiano) ci ha data la “grinta” di Mussolini. La stessa, unita all’amore per l’Italia (o almeno per l’Italia Settentrionale, o per il Piemonte, o per quella che Radetzky chiamava, con settecentesco rispetto, la S. M. Sarda) il sorriso di Cavour. Uno ha fatta l’Italia, che l’altro ha disfatta.


C’è da aggiungere qualcosa? Sì, ecco:

PATRIOTTISMO, NAZIONALISMO E RAZZISMO stanno fra di loro come la salute, la nevrosi e la pazzia.

La salute mentale, nonostante le apparenze, è sempre più rara. La nevrosi è dovunque. La pazzia è in crescita: dato che nasce da una stupidità diventata socialmente più naturale che mai.