Ai quattro punti cardinali che incrociano Casarsa della Delizia si legge sulla segnaletica stradale “Casarsa città di Pasolini”. Un cartello che fa riflettere sulle mutevoli opinioni che la società civile e politica riesce a mettere in campo nei decenni. Fuggiasco dalla cittadina nella quale, durante la guerra, aveva trovato ospitalità nella casa dei genitori a Versutta, tra calunnie diffuse, in una notte di tensioni per le denunce ricevute dai carabinieri per atti osceni, con altri giovani, nei campi della zona, Pasolini andò a vivere verso l’ignoto e nella miseria della città di Roma. Fuga che gli fece cancellare nelle poesie della raccolta La meglio gioventù la dedica a Casarsa (1941) “fontana di rustic amour” in quella più sprezzante “fontana di amour par nissùn” (amore per nessuno). Ma oggi la forza della storia, nella sua attualità, rende onori alti all’inquieto e solido ingegno di una persona di tempra straordinaria. Si legge con interesse l’articolo di Mauro Barberis pubblicato dal numero 1/2022 di “Mondo Operaio” intitolato “Sulla monumentalizzazione di Pier Paolo Pasolini”. L’articolo è datato, da quel che si sa, 1991, rifiutato da molte testate e ora riedito sul mensile socialista.
Sulla sua vita, sulle scelte, sulle tensioni etiche, sui successi, sulla morte di questo protagonista della storia culturale italiana, tra il tragico dopoguerra e il boom economico, che avrebbe dato nuovo volto alla ricerca del progresso e del benessere, si staglia l’ego autorevole di Pasolini e l’ostinazione di solitario oppositore del sistema capitalistico, di cui era insieme vittima e protagonista principe. Barberis si cimenta in un percorso polemico, nel quale si evidenziano contraddizioni di non lieve spessore. Pasolini interpretato come il demoniaco erede di una religiosità abbandonata in favore “dei sostituti religiosi che sono le ideologie, basti riferirsi al marxismo”. Con analisi storicamente non corretta Barberis incalza: “Si ergono sugli altari i demoni di ieri e così accade [nel 1991, NdR] per Pasolini”; perché questa esclusiva domiciliazione infernale per il poeta friulano quando si potrebbero citare nella storia del nostro paese Dante, Galileo, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Antonio Gramsci, Matteotti, don Sturzo, Carlo Rosselli? Il fatto che nei secoli l’umanità si sia convinta alla teorie eliocentriste rende forse più debole e criticabile l’impegno solitario di Galileo?
Bene sostenere che Pasolini sia stato un autore contro, uno degli alfieri della non omologazione, che denunciava le tendenze degenerative della società e della democrazia italiana, l’appiattimento culturale e il conformismo consumistico, l’ipocrisia del Palazzo e la vocazione totalitaria del Potere e la mutazione antropologica della subcultura giovanile radicata nelle periferie delle città, significativamente di Roma. Ma si lamenta Barberis che Pasolini diventi eroe di una sinistra orfana dei propri padri e che in occasione del sedicesimo anniversario della morte un consigliere comunale romano chieda di dedicargli un parco pubblico e un monumento. Barberis irride il fatto che gli si possa dedicare un monumento possibilmente non equestre. Pasolini nella sua complessa e sicura analisi, spesso anche contraddittoria, sarebbe capace di aggregare la piattaforma delle opinioni di tutta la società politica. Barberis pretende che questa grandezza di analisi sociale invece di esaltare l’unicità pasoliniana, come attestato in tutto il mondo, sia figura da ridimensionare. La colpa di Pasolini, secondo Barberis? Di seguire le tematiche e le analisi di un sociologo, tanti decenni fa di moda, Francesco Alberoni, abile nel parlare di tutto ciò di cui tutti parlavano. Recentemente a Genova si è svolto un convegno nel quale il sociologo Paolo Giovannini, docente di chiara fama a Firenze, ha stigmatizzato con precisa documentazione che Pasolini non inseguiva metodologia scientifica, ma, appunto, riferiva criticamente ciò che il suo pensiero e la sua esistenza gli facevano verificare nelle angustie del quotidiano.
Perché accusare Pasolini di utilizzare il marxismo in modo settario e anomalo? Pasolini fin dagli anni post bellici quando era segretario del Pci a Casarsa della Delizia dove è sepolto, con comportamenti e polemiche e manifesti cercava di portare il partito su una strada di libertà e di confronto democratico. Senza riuscirci. Anzi proprio il Pci approfittò dello scandalo nel quale, in un piccolo paese arretrato, il professore era incorso, per alimentare la sua cacciata dal partito e la sua conseguente fuga notturna a Roma. Pasolini comunque era rimasto nel partito del quale erano militanti gli assassini dell’amato fratello Guido.
È quasi banale sostenere che lo spirito solitario di Pasolini travalica l’armamentario marxista per esaltare la sua indipendenza e la sua solitudine esistenziale. Perché vuole negare Barberis non tanto lo spirito profetico spesso attribuito a Pasolini, ma la lucidità con la quale analizzava una società travolta e impoverita dai fatti che, pervicacemente, sconvolgono le relazioni umane con le leggi del consumismo e massificano le ambiguità sociali? A Barberis si deve obiettare: se tutti oggi ci troviamo ad affrontare i temi fondanti della polemica civile di Pasolini, perché negare la sua originaria diversità? Perché irridere lo straordinario uomo di cultura che vive la propria esistenza come degradazione nel consumismo e come cataclisma antropologico soprattutto presso le nuove generazioni? Sconcertante che nel saggio di Barberis si legga: “Pasolini parlava del genocidio delle culture non sulla base del Manifesto di Marx come farebbe un intellettuale ‘perbene’, ma sulla base della propria personalissima esperienza”. Che vuol dire “intellettuale perbene”? Dramma esistenziale e ricerca metodica cosa hanno a che fare con l’ipocrisia moralistica? Non si chiede a Barberis di concedere a Pasolini la corona dei poeti laureati (di montaliana memoria), ma, a un secolo dalla nascita e a quarantasei anni dalla morte, si chiede solo finalmente di rispettare Pasolini, aggredito spesso impunemente in vita e mai difeso dai tanti benpensanti che seguivano ipocritamente la bandiera delle sue idee. In una bella intervista il regista Mario Tullio Giordano, che a Pasolini ha dedicato alcune sue opere cinematografiche, chiede che Pasolini non sia ostentato come “un corpo Santo in una stagione nella quale la violenza del sovranismo populista e l’odio per la diversità sono ancora più drammatici di allora.
Basta considerare che nel recente Festival di Sanremo si è discusso per tre giorni sul tema della diversità.
Perché intorno a questo complesso personaggio continuano a nascere studi e approfondimenti di solido impegno? Pasolini aveva una vocazione pedagogica costruita su una passione solidale verso l’umanità dei diseredati e verso tutti coloro che avessero accettato la sua autorevolezza culturale. Celebri le sue riflessioni “Può educare solo chi sa cosa significa amare”. E ancora: “Educare sarà forse questo il più alto e umile compito affidato alla nostra generazione”. O come scriveva sul “Popolo di Roma” nel settembre ’51 quando si interrogava su come proporre agli alunni delle medie la poesia: “È equo che l’insegnante ricorra a un elementare principio di autorità e che nello stesso tempo susciti nell’allievo quella curiosità e quella passione che elimini la fatica di un’attenzione ‘passiva’”. Certo, la contraddizione di rimpiangere la campagna abitata dalle lucciole è più reminescenza delle Bucoliche di Virgilio e trascura la tragica miseria della popolazione contadina friulana che nella pellagra, nella miseria, nello sfruttamento feudatario ancora nel Novecento subiva una sottomissione disperante. Ma le sue contraddizioni erano anche l’impegno di scoprire nuovi itinerari di solidarietà tra chi riceveva le attenzioni della sua intelligenza. Pasolini amava credere nelle possibilità di conservare la memoria del borgo nel quale era cresciuto contro un mondo da abbandonare.
Il metodo pedagogico di Pasolini non si fonda su una dimensione teorica, astratta, ma vive della fatica dell’operare lontano dagli stereotipi del maestro del libro Cuore. Nel volume Romans, Pasolini scrive con candore: “Il lavoro del maestro è come quello della massaia, bisogna ogni mattina ricominciare da capo: la materia, il concreto sfuggono da tutte le parti, sono un continuo miraggio che dà illusioni di perfezione. Cosa riuscirò a insegnare loro?”. Felice questo interrogativo che pone dubbi sull’interazione tra maestro e alunno, protagonista da cui far affiorare attitudini di ognuno contro il potere impositivo dall’alto. Pasolini non viene capito in questa sua vocazione educativa, soprattutto in romanzi come Teorema o Petrolio, nei quali appare il tormento della testimonianza di una visione sociale-politica intrisa di tematiche pseudo conflittuali con velleità religiose e civili più inquietanti che verosimili.
Certo, le difficoltà di catalogare Pasolini pedagogo nascono, come ebbe a scrivere Enzo Siciliano, “dalla lucida consapevolezza del poeta di soffrire la propria solitudine e nell’irridere alle etichette, essendo l’intellettuale e il politico più antischematico della nostra epoca”. Uomo impolitico, inattuale, Pasolini mantiene accesa la tensione morale in un “disorientamento” pensante verso la realtà, in una moltitudine di linguaggi, in molteplici registri immateriali sempre diversi. Invade Pasolini l’ordine politico-educativo “ufficiale”. In una lotta nella quale la multiforme genialità (soprattutto cinematografica) cerca di contrapporsi alla dimensione del capitalismo consumistico, con provocazioni estetiche e polemiche feroci contro un nuovo ordine di cose. Ma nelle società della democrazia del consenso può essere accettato un maestro e una pedagogia delle incontentabilità? Pasolini coglie la responsabilità di pensare l’educazione per i tempi attuali, permeati dalla complessità del vivere. Lo spirito pedagogico continua a essere un invito alla meditazione. Anche nella sua morte c’è stata una pedagogia. E Marco Tullio Giordana bolla questa tragedia come un fatto “culturale”. Il capro espiatorio di cui con tanta sapienza parla René Giraud, cioè dell’innocente che diventa vittima. E poi come dimenticare Totò che nel film “Uccellacci e uccellini” racconta “i maestri si mangiano in salsa piccante”. Dante Ferretti, scenografo di tanti film di Pasolini, racconta al “Corriere della Sera”: “Gli feci notare che nel film Decameron c’era un’incongruenza nell’arredo. Pier Paolo mi insegnò ‘Si ricordi che siamo proiettati nel futuro. Gli errori sono fondamentali nelle cose che abbiamo fatto. Se tutto è perfetto vuol dire che è stato ricostruito. Ogni tanto bisogna fare degli sbagli: diventa tutto più vero’”.
Il monumento che Pasolini non ha mai chiesto è la sua tomba a Casarsa: una sobria lapide, senza foto, una rigogliosa pianta di alloro alla quale possono avvicinarsi coloro che ne rispettano le poesie, i romanzi, gli articoli, i film, la cui concretezza e severità non hanno perso valore e vigore nell’incontro tra realtà e sublimazione. Il monumento vorrebbero edificarlo tutti coloro che, deformando la personalità dell’ostinato friulano, pensano di sopperire a pesanti complessi di colpa e di indifferenza verso un autore che l’Academy Museum di Los Angeles, edificato da Renzo Piano, onorerà con la programmazione dei suoi film in un accordo con Cinecittà.
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