Da una quarantina d’anni mi occupo professionalmente e -cosa anche peggiore!- insegno ad altri la cultura, la storia, la letteratura e la lingua polacca. Ma noi slavisti italiani, e in genere gli slavisti cosiddetti occidentali, almeno quelli della mia generazione, siamo abituati a considerare e studiare tutte le culture slave da un punto di vista unitario. Anche da questo punto di vista molto secondario, la guerra di Putin è una tragica follia, e così nelle scorse settimane i vari comitati nazionali hanno annullato e stabilito di rinviare sine die il Congresso Mondiale degli Slavisti previsto a Parigi per il prossimo anno.
Nel gennaio 1946, finita la Seconda guerra mondiale, il “padre fondatore” dei nostri studi, Giovanni Maver, per il quale nel 1929 era stata creata la prima Cattedra di polonistica in Italia alla “Sapienza” di Roma, pubblicava un articolo fondamentale intitolato “Gli slavi: ciò che li unisce e ciò che li separa”. L’articolo di Maver era apparso sulla rivista “Europa”, fondata dallo storico Pier Fausto Palumbo, dirigente del Movimento Federalista Europeo. L’idea portante di Palumbo e della rivista era quella di un’Europa ricostruita aperta ai Paesi socialisti e non “un’Europa antemurale dell’America”. L’articolo programmatico di Maver s’inseriva pienamente in quell’idea, chiedendosi “se l’innegabile antagonismo religioso e culturale tra gli slavi ortodossi e gli slavi cattolici, tra l’Oriente bizantino ed eurasiatico e l’Occidente germanico-latino abbia maggiore importanza di quei fattori unitari la cui presenza, di qua e di là di tale barriera, è avvertita da slavi e non slavi, anche se non è facile definirli chiaramente e meno ancora coglierne la vera portata”. Insomma, alle divisioni della geo-politica si potevano (si possono) sempre opporre i motivi unitari della cultura.
Sulla scia di questo insegnamento di Maver e dei suoi allievi Riccardo Picchio e Sante Graciotti, ma restringendo il campo alle sole due culture antagoniste, Russia e Polonia, all’ineguale disputa tra il borioso polacco e il russo fedele (come l’aveva chiamata Pushkin nella sua arrogante ode “Ai calunniatori della Russia”, trad. E. Lo Gatto), un tema di cui molti si erano occupati prima e assai meglio di me, anni fa decisi tuttavia di pubblicare un libretto intitolato Tra Oriente europeo e Occidente slavo (Lithos editrice, Roma 2008), che conteneva inevitabilmente un capitolo sull’Ucraina, intitolato “La fascia mediana fra le due Slavie: Rutenia e Ucraina”.
Ruthenia è l’antico nome latino di tutta quella zona di cui oggi Putin, e prima di lui Ivan il Terribile e Stalin, vorrebbero appropriarsi, adducendo false motivazioni storiosofiche, perché quelle terre non sono mai state (solo) russe. Oggi comprendono parte dei territori dell’Ucraina, della Bielorussia, della Russia, della Polonia (i vecchi “kresy”), della Moldavia e una piccola parte del nord-est della Slovacchia, e da sempre sono state culla di lingue, culture, religioni, espressioni artistiche le più diverse: queste terre sono state da sempre fertili non solo di grano, ma anche di artisti, di scrittori e di libri: in quel territorio, a Kyiv, ma anche in certe altre zone ulteriormente “di frontiera” (la Galizia, la Bucovina, la regione di Odessa, la Crimea, e la parte settentrionale, confinante oggi con la Bielorussia e un tempo con la Lituania storica), sono nati alcuni fra i maggiori scrittori e artisti europei ed extraeuropei: Nikolaj Gogol’, Joseph Conrad, Sholem Aleichem, Michail Bulgakov, Isaac Babel’, Anna Achmatova, Vasilij Grossman, Joseph Roth, Paul Celan, Shmuel Yosef Agnon, premio Nobel 1966 (e con lui molti altri scrittori yiddish e israeliani), Jaroslaw Iwaszkiewicz, Zbigniew Herbert, Stanislaw Jerzy Lec, Adam Zagajewski, Stanislaw Lem… E ancora Kazimir Malevitch, Vaclav Nižinskij, Vladimir Horovitz... La lista sarebbe lunghissima. Questi scrittori e artisti hanno scritto e pubblicato le loro opere in russo, in inglese, in tedesco, in yiddish, in ebraico, in rusyno, in armeno, in polacco… Hanno suonato, danzato, e sono esposti nei musei di tutto il mondo… E che dire poi della grande letteratura e arte ucraina, che è ancora troppo poco conosciuta, come purtroppo capita alle culture considerate “minori” perché egemonizzate da culture “imperiali” e per questo considerate “maggiori”, e che magari vengono riscoperte proprio in momenti drammatici e tristi come quello che stiamo vivendo…
Andai per la prima e unica volta a Kyiv nel 1994, e mi innamorai letteralmente di quella città meravigliosa e di quella gente: qualcuno da qualche parte ha scritto che l’Ucraina ha le donne e gli uomini più belli d’Europa. Era un convegno italo-ucraino intitolato, guarda caso, “L’Ucraina del XVII secolo tra Occidente ed Oriente d’Europa”. Un destino quel “tra”, che mi fa pensare a tanti altri “tra” che nella storia (e nelle vite delle persone) sono sempre stati causa di grande ricchezza, ma anche di grandi sventure! La città e tutta l’Ucraina si stava lentamente risollevando dai decenni della miseria sovietica, se ne vedevano ancora i segni, assieme ai fasti di una civiltà antica, risalente ai primordi dell’Europa cristiana, e poi il barocco, i parchi, le strade ampie, qualche caffè coi tavolini fuori e la gente, soprattutto la gente, coi suoi sorrisi! In quel convegno parlai dell’opera in lingua polacca di uno scrittore bielorusso che, dopo aver studiato all’Accademia di Kyiv, si sarebbe trasferito a Mosca diventando il massimo artefice del barocco letterario russo, ponendo proprio lui, imitatore di Jan Kochanowski e dei poeti mediolatini, le basi della “prima occidentalizzazione” della cultura e letteratura russa. Per me, Simiaon Polacki rappresentava in un certo senso la potenza unificante dell’arte e della cultura al di sopra di ogni possibile divisione politica ed etnico-religiosa fra gli uomini e i popoli. E questo poteva avvenire perché la Rutenia/Ucraina è stata la principale e pressoché unica area culturale dell’Europa bizantina ad aver incorporato il latino come una delle proprie stesse lingue di cultura. Andammo con dei professori e altra gente fuori Kyiv a visitare un osservatorio astronomico in mezzo a una foresta, e poi a pranzo, un pranzo slavo, con vodka e canti. Mi fecero fare un brindisi (forse ero il più giovane della compagnia) e mi ricordo che dissi che mi vergognavo di non poterlo fare in ucraino (anche se tutti capivano perfettamente il polacco, ovviamente), e dissi che in quei giorni a Kyiv avevo definitivamente capito cosa intendesse Milosz col titolo del suo libro Rodzinna Europa. Anche quella stupenda città e tutta l’Ucraina sono la nostra “Europa familiare”. Forse “un’altra Europa”, come è stato tradotto il titolo del libro di Milosz in alcune lingue, ma sempre nostra comune, e familiare. A Kyiv (come in tutta l’Ucraina) convivono e s’incrociano pezzi di storia, di cultura e di arte da più direzioni, con influssi e indirizzi vari, assai ben visibili ad esempio nell’architettura: penso alla cattedrale di S. Sofia, dell’XI secolo (all’epoca Mosca era solo una cittadina oscura di una piccola provincia con una tribù finnica, i Merja), coi suoi mosaici bizantini e le sue iscrizioni greche, ma avvolta all’esterno da aggiunte nello stile del barocco occidentale; penso anche agli architetti che fra il 1730 e 1740 rifecero il volto di alcuni monumenti simbolo della capitale ucraina, come il Gran Campanile, o la chiesa di S. Andrea, e cioè l’italiano Bartolomeo Francesco Rastrelli e il tedesco Johann Gottfried Schedel che però -nota bene- non giunsero a Kyiv dalle loro rispettive patrie, bensì da San Pietroburgo, la nuova capitale russa e “finestra sull’Europa” (secondo la nota definizione di Francesco Algarotti), cui lo zar Pietro
-proseguendo in tutto e anzi rafforzando la tradizione del cesaropapismo bizantino-russo- aveva voluto dare il nome del primo papa e vicario di Cristo in terra (che poi era anche il suo nome). Oggi Putin ha chiuso (definitivamente?) quella finestra della Russia sull’Europa, e tanto più -come ha scritto lucidamente il giovane e bravo storico italiano Simone Attilio Bellezza in suo libro uscito poche settimane fa (prima del conflitto!)- il destino dell’Ucraina e il futuro dell’Europa sono strettamente collegati. E dunque non “La Russia cambia il mondo”, come ha titolato il suo ultimo, vendutissimo numero la rivista di geopolitica “Limes”, ma “l’Ucraina cambia il mondo”!
L’università La Sapienza, la mia università, è l’unica in Italia che abbia un insegnamento completo ufficiale di ucrainistica: lo tiene Oxana Pachlovska, con la quale condivido uno studio dove quando entro, da qualche settimana, mi fanno triste compagnia i tanti libri ucraini accumulati sulla sua scrivania. Lei era partita lo scorso febbraio durante la pausa semestrale per andare a trovare sua madre, Lina Kostenko, fra i massimi scrittori e poeti ucraini viventi (l’editore Castelvecchi di Roma ha ora in ponte una nuova scelta poetica di Kostenko), la quale lo scorso 19 marzo ha compiuto 92 anni. Le due donne sono rimaste bloccate lì dalla guerra, nella loro casa di Kyiv, dovendo Oxana fare la terribile scelta se rimanere con sua madre sotto le bombe o tornare in Italia dalla figlia e dal marito. Con Oxana nel nostro comune studio possiamo parlare indifferentemente italiano, ucraino, russo e polacco: suo padre era lo scrittore cracoviano Jerzy Jan Pachlowski (1930-2012), rimasto orfano di tutta la sua famiglia da ragazzo durante la Seconda guerra mondiale. Lina Kostenko e Jerzy Jan Pachlowski si erano conosciuti e innamorati a Mosca all’Istituto Letterario im. Gorki: una storia tutta slava, ucraino-polacco-russa… ed europea, considerando che la loro figlia Oxana è diventata una delle massime ucrainiste, autrice tra l’altro di Civiltà letteraria ucraina, un libro fondamentale di oltre mille pagine, in cui ha riversato tutta la scienza e competenza e tutto il suo amore per la propria terra di origine. Il libro, pubblicato a Roma nel 1998, Oxana volle dedicarlo a sua figlia, che oggi studia a Londra: “A Jaroslava Francesca, nella quale si incontrano due mondi”. Auguriamoci che ne esca presto una nuova edizione!
L’altra collega che insegna lingua ucraina alla Sapienza, tra l’altro autrice del primo grande dizionario ucraino-italiano (pubblicato da Hoepli dopo 70 anni dal precedente!), è Olena Ponomareva, figlia di Oleksandr Ponomariv (1935-2020), luminare della linguistica ucraina, appassionato difensore della sua lingua a fronte degli attacchi anche su questo piano dell’imperialismo culturale russo, anche lui scrittore della generazione dei šestdesjatniki come Lina Kostenko. Tutto questo per dire che, a fronte del bla bla bla di certi improvvisati pseudoesperti che in realtà non sanno niente, e che magari fino a pochi mesi fa tessevano le lodi di Vladimir Putin, la parte migliore della cultura accademica e della slavistica italiana (non certo quella che fino a poche settimana fa si faceva sostenere dai ricchi fondi del programma “Russkij Mir”), tiene fermo il punto della reale competenza e della verità a ogni costo, anche quello dell’isolamento quando certe verità (come l’esistenza stessa di uno Stato, di una nazione, di un popolo, di una cultura e di una lingua chiamati Ucraina) sono sgradite ai più. E anche per questo, dopo anni di decadenza iperspecialistica, il nuovo numero della rivista romana “Ricerche slavistiche”, fondata da Giovanni Maver nel lontano 1952, da questo numero sotto la nuova direzione della mia collega polonista Monika Wozniak, sarà per intero dedicato alla “Belarus’ europea”, un’altra realtà pienamente nostra e “familiare”, di cui in Italia e altrove, si conosce a malapena il nome del suo tiranno, il fedele lacchè di Putin Aljaksandr Lukashenka (ovviamente pronunciato alla russa). In Italia non esiste nessuna cattedra di bielorussistica, ma è importante che proprio Oxana Pachlovska abbia scritto per questo nuovo numero di “Ricerche slavistiche” un lungo articolo introduttivo intitolato “Perché la bielorussistica oggi?”.
In questo semestre sto tenendo un corso di letteratura polacca sul Cinquecento, e in particolare su Kochanowski e Sep Szarzynski, due poeti che ho studiato fin da giovane e che amo molto. Sembrerebbero fin troppo distanti dai nostri tempi, ma i poeti e gli artisti, se sono davvero tali, parlano sempre a tutta l’umanità di tutti i tempi.
In classe coi miei studenti nei giorni scorsi ho riletto con stupore e angoscia questi versi del Satyr (1564), uno dei testi minori di Jan Kochanowski, massimo artefice del Rinascimento, che ormai pochi leggono anche in Polonia. Parla il Satiro, sulla possibile scelta se stare dalla parte del “despota” di Mosca o della sia pur incerta e litigiosa “democrazia nobiliare” dei Polacchi:
Il despota che è della stirpe di quei despoti antichi [i Mongoli di Gengis Khan]
per vostra onta perenne ha attraversato due volte le vostre terre;
il Moscovita ha preso Polock e adduce lettere
secondo cui la Galizia gli apparterrebbe per diritto naturale;
ma se si va a vedere il diritto, io preferirei restare con voi,
giacché lui ha ben poca dimestichezza con le costituzioni…
Ieri, oggi e ancor più domani, l’Ucraina siamo noi.
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