Intervento tenuto al 900fest svoltosi a Forlì negli ultimi giorni di ottobre, con il titolo “Il populismo di destra e la socialdemocrazia. Comparazione e differenze”.
Molti anni or sono, nei tardi anni Cinquanta, lo scienziato politico statunitense Seymour Martin Lipset pubblicò un articolo sull’“autoritarismo della classe operaia”. Lipset era preoccupato, in particolare, del sostegno degli operai ai partiti comunisti, i quali presentavano un’organizzazione interna di tipo autoritario e miravano alla creazione di regimi centralizzati e dittatoriali. Lo stesso studioso poneva l’accento anche sull’analisi di Robert Michels, divenuta classica, sulle tendenze autoritarie dei partiti socialisti e sull’abilità dei populisti di destra -come l’argentino Peron o il razzista statunitense George Wallace- di conquistare il supporto della classe operaia. L’articolo di Lipset sarebbe stato in seguito aspramente criticato dagli ideologi marxisti, i quali insistevano che il proletariato fosse la classe sociale che (un giorno) sarebbe riuscita a liberare tutte le altre e che nell’attesa di quella liberazione avrebbe fornito le “truppe d’assalto” per combattere le battaglie della sinistra ovunque nel mondo. Si potrebbe meglio riassumere questo concetto dicendo che era proprio questa “liberazione” la missione che il marxismo aveva assegnato al proletariato, anche se questa sarebbe stata assunta solo da alcuni dei suoi membri, che sarebbero effettivamente divenuti la base politica per la sinistra globale. Ma c’erano pur sempre altri membri, con agende politiche ben differenti.
È facile trovare operai, uomini e donne, in partiti e movimenti di destra intenti a difendere i valori tradizionali della famiglia e della nazione e a opporsi a stranieri e migranti che minacciano, così recita l’adagio, i nostri posti di lavoro, il nostro stile di vita e lo status sociale di “quelli come noi”. Le libertà civili, il diritto di parola, il diritto di opporsi, la tolleranza, il multiculturalismo, la capacità di convivere con l’ambiguità; questi valori progressisti sembrerebbero resistere con più forza nella classe media e tra i ceti più istruiti (certo non in tutti i loro componenti, decisamente no). Le persone meno istruite, diceva Lipset, tendono a essere attratte da leader forti, da movimenti politici dove l’adesione, talvolta, esclude l’essere critici.
Oggi siamo chiamati a rivalutare queste argomentazioni, in un’epoca in cui tanti componenti della classe operaia sostengono i nazionalismi di destra e i partiti populisti in Europa e anche negli Stati Uniti, dove i repubblicani di Donald Trump hanno ormai consolidato un forte sostegno da parte di ampie porzioni della classe operaia (meno dai lavoratori sindacalizzati). Come fanno questi partiti a raccogliere voti da quello che ci hanno sempre insegnato essere un bacino naturale di preferenze per la sinistra? Una risposta, forse, ci viene da quell’argomentazione circa l’autoritarismo della classe operaia, anche se a dire il vero quell’argomentazione non è esclusiva di quella classe: d’altronde, i regimi autoritari hanno sempre goduto di un significativo e indispensabile sostegno anche da parte delle classi medie e dagli strati di popolazione più poveri.
Oggi voglio proporre un’interpretazione più specificamente legata al concetto di classe: il populismo nazionalista è una posizione politica che scimmiotta, distorcendole, le idee di sinistra -ecco spiegata la sua attrattiva per i suoi ex-elettori. In questa relazione voglio analizzare questo sviluppo, che è allo stesso tempo imitativo e distorcente, e aggiungere qualcosa circa i fallimenti della sinistra che hanno spianato la strada a questo processo.
Il populismo è una politica anti-elitista, che si erge a difesa di uomini e donne ordinari, del popolo comune, contro i professionisti e i burocrati arroganti, presuntuosi e saccenti, che comandano e dirigono le vite di ciascuno, contro l’intelligentsia, contro i professionisti dei media e del cinema, contro i giornalisti e i professori, tutti coloro cioè che danno forma alla gerarchia dello status: dai più rispettati e influenti fino ai “white trash”, i ceti più infimi della società. Tutti questi elementi, presi insieme, potrebbero essere definiti “la classe dominante”. In effetti, non sono loro i nostri veri governanti, almeno non nel vecchio senso della parola: tra questi non troviamo mai citati i proprietari dei mezzi di produzione, i magnati delle corporation, né le famiglie degli oligarchi. L’élite presa di mira dai politici populisti è un gruppo intermedio, non già il famoso “1%”, ma il 15-20% immediatamente sottostante. I componenti di questa élite hanno certo molto a che fare con quei processi che permettono a chiunque di percepire la propria condizione di assoggettamento al sistema; sono, cioè, i rappresentanti più in vista dell’ordine sociale costituito e del regime politico, ma non sono effettivamente loro gli uomini e le donne che determinano il carattere di quell’ordine sociale o di quel regime politico. Il populista di destra si occupa più raramente dei nostri veri “dominatori”; quando giungono al potere, i populisti lasciano intatti gli strati più alti della gerarchia sociale ed economica.
Comunque sia, l’attacco all’élite ha un certo sapore “di sinistra”, perché effettivamente gli uomini e le donne definiti come “élite” costituiscono davvero una classe privilegiata. Loro, o, per meglio dire, noi (dal momento che io stesso sono un professore universitario di un’istituzione accademica d’élite), ce la passiamo bene; abbiamo proprietà, siamo ben assicurati, conseguiamo livelli di istruzione più alti, ci dedichiamo alla cultura, viaggiamo, siamo a nostro agio nel mondo.
È inoltre molto probabile che i nostri figli seguiranno le nostre orme, che frequenteranno buone scuole e ottime università e che in seguito otterranno lauree, abilitazioni professionali e lavori da subito ben retribuiti. Noi giustifichiamo tutto questo definendoci una “meritocrazia”, ma comprendiamo benissimo che la storia del merito non è che una parte della nostra più vasta storia personale, perché siamo cresciuti in famiglie e in sistemi sociali in cui il merito viene coltivato e incentivato, dove le carriere dei giovani sono promosse non solo dalle loro capacità -e ne hanno molte- ma anche dai legami sociali coltivati dai loro genitori.
Come ogni classe privilegiata nella storia dell’umanità proteggiamo e sosteniamo i nostri simili. È per questo che siamo il bersaglio legittimo di una politica egalitaria, ma anche, spesso, di politiche pseudo-egalitarie.
Naturalmente noi meritocratici siamo brava gente: sosteniamo le cause progressiste (non tutti noi, ma certo una parte significativa), abbiamo posizioni sociali “evolute”, sosteniamo le politiche identitarie
-dall’uguaglianza di genere al diritto alla donna di abortire, dai matrimoni gay ai diritti Lgbtq (di lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e queer). Crediamo nel “black lives matter”, siamo a favore di una politica di accoglienza migratoria generosa (alcuni di noi invocano i confini aperti -cioè, nessuna politica migratoria); siamo a favore delle minoranze, siamo multiculturali. Siamo contrari all’incarcerazione di massa, vogliamo tagliare i fondi alla polizia o quantomeno riformarla. Siamo ostili a quei sentimenti campanilistici che costituiscono l’ossatura del patriottismo. Siamo la base imprescindibile di ogni politica di sinistra che voglia essere contemporanea. Ma, forse, siamo anche fin troppo orgogliosi delle nostre posizioni così evolute; troppo spesso, il procedimento con cui adottiamo le nostre convinzioni appare al mondo come un modo per dimostrare una nostra superiorità morale e culturale. Presi nel loro insieme, tutti i nostri privilegi, tutte le nostre posizioni illuminate, tutta la nostra altissima considerazione di noi stessi sembrano invocare a gran voce una reazione populista. Spesso questa reazione è incoraggiata, talvolta perfino finanziata, da persone che si trovano sopra di noi nella gerarchia socio-economica, persone che ritengono sia meglio che siamo noi, e non loro, il bersaglio del risentimento popolare.
La cosa che più conta per l’arena politica odierna è che molti meritocratici, troppi tra noi, sembrano aver dimenticato o abbandonato i concetti di ineguaglianza economica o di politica di classe. Non c’è dubbio, siamo decisamente convinti che la disuguaglianza sia una brutta cosa, ma le nostre posizioni illuminate non si spingono certo fino a qualcosa che assomigli anche solo vagamente alla lotta di classe. La globalizzazione ha lasciato dietro di sé una scia di macerie in molte comunità operaie mentre noi, che nell’economia globale prosperiamo, non abbiamo fatto molto caso alla sofferenza che questa ha provocato. Il neo-liberismo, un’ideologia che giustifica l’indifferenza, talvolta è andato a braccetto con tutti quei proclami progressisti (oggi si potrebbero definire “woke”) che ho elencato poco fa. Abbiamo assistito al declino dei sindacati senza fare nulla; ci siamo convinti che il mercato, un giorno, avrebbe portato il benessere universale. Ci siamo uniti a ogni battaglia, eccetto che a una: l’antica battaglia dei lavoratori contro la tirannia dei proprietari e degli amministratori delegati.
Ma perché non sono stati gli stessi lavoratori a farsi carico della lotta? Non è forse vero che sono condizioni di sofferenza e vulnerabilità a produrre politiche di sinistra? Non è sempre stato così: ci sono anche condizioni che possono essere sfruttate da demagoghi populisti, che fomentano il popolo contro le élite che amano gli immigrati, che sostengono i diritti delle minoranze, che odiano la polizia, quegli uomini e quelle donne in posizioni di visibilità, tanto meritori, che rifiutano i valori della famiglia e della nazione. Le élite, si tende a pensare, guardano dall’alto in basso il popolo che lavora duro ma non è “illuminato”. I populisti sostengono questo popolo non in quanto parte di una classe oppressa, ma piuttosto in quanto simbolo di una nazione in declino, sempre più derisa -una nazione che, come promettono, un giorno tornerà “di nuovo grande”.
I demagoghi che fanno quella promessa sono i futuri “leader massimi” che rivendicano di incarnare la nazione, di parlare a nome del popolo. Pensiamo a loro come alla versione di destra dell’avanguardia socialista. Alcune delle loro iniziative assomigliano a ciò che ha sempre fatto l’avanguardia una volta ottenuto il potere: per esempio, distribuire i fondi dello stato al popolo (finché i soldi non finiscono). Qui troviamo la differenza fondamentale con le avanguardie socialiste: queste ultime, almeno in teoria, saranno un giorno rimpiazzate dagli uomini e dalle donne che sono intente a guidare. Il leader massimo, invece, non ha alcuna intenzione di cedere il proprio posto.
I demagoghi populisti finiscono per promettere di tutto all’uomo comune -un po’ meno alla donna comune. In effetti, gli uomini sostengono l’autoritarismo populista in numero maggiore rispetto alle donne.
Forse è perché, generazione dopo generazione, la struttura patriarcale ha consegnato agli uomini di ogni classe sociale la convinzione che l’autorità appartenga loro di diritto -e oggi quell’autorità appare minacciata dal progressismo delle élite e dal femminismo. Ma, ancora, sospetto che la causa più specifica di questo fenomeno sia economica: il declino dell’industria a Occidente, il suo spostamento a Sud e a Oriente, ha costituito perlopiù una perdita di posti di lavoro per gli uomini della classe operaia e una conseguente perdita di status e di orgoglio. Di qui, l’attrattiva esercitata da un nazionalismo machista e dalle politiche anti-migratorie.
Naturalmente, il populismo conta anche su un seguito femminile -penso a quella donna statunitense che aveva confessato a un giornalista che amava Donald Trump perché “è uguale a mio marito”. Per questa donna la famiglia era un valore fondamentale, una fonte di conforto e un valido motivo per essere leali al leader. Ma quella famiglia da lei immaginata era una famiglia patriarcale, un’istituzione oggi contestata dalla sinistra, altrettanto quanto lo è il valore dell’idea di nazione. Per questo tipo di persone, i populisti di destra difendono un mondo che, a detta loro, sta scomparendo: quello fatto di casa e patria.
Non voglio certo ignorare il problema del razzismo, ancora questione centrale della politica statunitense. Credo però che il ruolo svolto dagli afroamericani nell’infame retorica populista negli Usa potrebbe essere svolto da qualsiasi gruppo di “altri”. Pensiamo alle minoranze religiose o etniche, agli stranieri di ogni nazionalit; qualsiasi gruppo che possa rappresentare una minaccia allo status delle “persone come noi” potrebbe ricoprire quel ruolo.
C’è peraltro un fondo di verità nell’affermare che molte “persone come noi” sono in difficoltà, di questi tempi. Non che ci sia una cospirazione per “la sostituzione etnica” (come affermano personalità della destra statunitense) dei bianchi americani con messicani e musulmani, ma effettivamente qualcosa è stato “sostituito”: le loro preoccupazioni, che hanno finito per essere ignorate dalle coscienze delle élite progressiste.
Il populismo nazionalista può ora godere di un significativo sostegno della classe operaia. Ciò è dovuto al fatto che i suoi esponenti politici attaccano con clamore quei meritocratici che rappresentano il volto dello stesso stato liberale che ha fin qui trascurato i lavoratori. I populisti promettono di riportare quei lavoratori al centro dell’attenzione. Molti di questi meritocratici presi di mira sono effettivamente progressisti ed esponenti di sinistra che hanno abbandonato il loro più antico impegno politico: la difesa delle persone in difficoltà, dei vulnerabili e degli oppressi. Dovremmo ricordare loro in cosa una politica di sinistra migliore, una social-democrazia rinnovata dovrebbe consistere.
Una sinistra più autentica dovrebbe occuparsi, prima di tutto, dell’eguaglianza sociale. Non dovrebbe incentrarsi sul risentimento di gruppi particolari -le élite stigmatizzate o le minoranze. I socialdemocratici devono aspirare a una gerarchia economica ben meno ripida di quanto non sia oggi, in cui ogni livello sia più accessibile. In questo modo, riusciremmo a mobilitare la rabbia sociale contro le strutture che rendono l’ineguaglianza possibile -e non contro dei cosiddetti “cospiratori” che si presume stiano complottando per portare alla rovina “quelli come noi”. Dimenticate le immagini caricaturali del capitalista stereotipato, grasso e brutto, che un tempo adornavano i giornali della sinistra radicale; la politica di sinistra deve prendersela con il sistema capitalistico e non con presunti onnipotenti e malvagi individui.
Il progetto di lungo termine è una società in cui uomini e donne che cooperano insieme riescano a considerarsi come pari -meritocratici più umili, proprietari e amministratori delegati vincolati a dei limiti, operai con più potere. L’obiettivo della sinistra non dovrebbe essere di risollevare le sorti degli uomini e delle donne della classe operaia, ma di metter loro in condizione di risollevarsi da soli. Ecco la seconda fondamentale caratteristica di una sinistra autentica: mentre i demagoghi populisti incoraggiano la dipendenza da sé dei propri seguaci -che devono tenere la testa sempre rivolta al leader massimo- i socialdemocratici devono puntare all’empowerment della classe operaia. Il fatto che le campagne populiste, tutte condotte nel nome del popolo, non puntino mai a rafforzare gli uomini e le donne cui sono rivolte dovrebbe apparirci come un fatto strano; la destra autoritaria, per esempio, permette i sindacati solo se può controllarli (la sinistra autoritaria non fa differenza -ma è un’altra storia). La sinistra democratica, al contrario, comporta una politica dell’organizzazione: di partiti politici, di unioni sindacali, di movimenti sociali. Punta a una società in cui il potere economico e politico è ampiamente distribuito -condiviso e al contempo conteso da gruppi di ogni tipologia differente.
Questi gruppi includerebbero quei movimenti identitari per cui si spendono gli uomini e le donne “evoluti” che ho citato prima. Ma devono anche contemplare il concetto classico dell’egalitarismo di classe. Le nostre élite progressiste devono tornare a una politica che si occupi tanto di disuguaglianze economiche quanto di diseguaglianze sociali; tornare a questo è cruciale, se vorranno rispondere con efficacia alla “difesa del popolo” di stampo populista.
(traduzione di Anna Bissanti e Stefano Ignone. Si ringrazia “La Stampa” per la collaborazione)
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