Convinto come sono che la saggistica è un genere letterario e che in alcuni secoli, per esempio il Settecento e il Novecento, arriva a volte a superare, per incisività letteraria e importanza storica, la poesia e il romanzo, trovo ovvio che la grandezza di Chiaromonte come testimone e pensatore politico sia dovuta anche alla sua qualità e vocazione letteraria di saggista. Era un assiduo lettore di Platone, che non è solo quel fondamentale filosofo che sappiamo, è anche considerato, per esempio dal Lukàcs premarxista, il primo dei più grandi saggisti, con i Mistici, Montaigne e Kierkegaard.
Chiaromonte, oltre che scrittore politico, è un moralista novecentesco e appartiene alla generazione degli anni Trenta, anni in cui nessun intellettuale e scrittore ha potuto sentirsi estraneo alle vicende politiche e all’impegno personale e culturale che imponevano. La sua è la generazione di Silone, Adorno, Orwell, Carlo Levi, Hannah Arendt, Simone Weil, Auden, Koestler, Isaiah Berlin, Norberto Bobbio. È la generazione segnata da una drammatica crisi economica e sociale e dal potere politico di Stalin, Mussolini e Hitler. Il tema di uno scrittore morale come Chiaromonte fu perciò fin dall’inizio l’immoralità radicale rappresentata in quegli anni dalle dittature di sinistra e di destra. La politica annichiliva la libertà e la dignità di ogni individuo, oltre che imporre l’ingiustizia sociale e schiacciare il bisogno di verità.
Ho detto che Chiaromonte saggista è scrittore morale e scrittore politico nello stesso tempo perché in quegli anni la testimonianza, la responsabilità e l’impegno personale riguardavano ogni individuo. Il pensiero di Chiaromonte è perciò autobiografico, non prescinde mai dalla sua esperienza e vicenda individuale. Non è un filosofo come Adorno, Hannah Arendt e Bobbio, né un narratore come Orwell, Koestler e Camus, né ovviamente un poeta impegnato e saggistico come Brecht e Auden. È più vicino, fra tutti, a Simone Weil, filosofo in prima persona, occasionale e antisistematico; e in parte a Berlin, che ha bisogno di Tolstoj e di Aleksandr Herzen per ragionare di storia, politica, idee, libertà e verità.
Chiaromonte è uno scrittore che non sente il bisogno di scrivere narrativa, poesia o testi teatrali. Ma dov’è allora in lui la letteratura? Credo che sia anzitutto nel suo modo di pensare al di qua e al di là di nozioni e pregiudizi culturali o culturalistici. Il suo è un pensare allo stato puro, senza presupposti né scopi. La singolarità della sua prosa, molto controllata quanto a umori e a colore stilistico, è nella sua nudità e chiarezza argomentativa: è un mettere ordine e approfondire dati di senso comune e di esperienza sociale diretta.
È un pensiero, per così dire, “senza bibliografie” preliminari. La sua saggistica senza note a piè di pagina esprime una solitudine antiprofessionistica, quel genere di solitudine che è naturalmente propria di un narratore e di un poeta. Dunque pensiero che non è filosofia, e autobiografia di idee che non è narrativa; analisi politica che non è al servizio di una precisa, né tantomeno esclusiva, appartenenza partitica. Chiaromonte scrittore pensa scrivendo e scrive per poter pensare. Dei contenuti del suo pensiero ha già parlato chi mi ha preceduto e parlerà chi verrà dopo a concludere. Ma c’è un dato insieme evidente e sfuggente negli scritti di Chiaromonte che non può essere separato dalla sua libertà di pensiero, e questo dato è (scusate la banalità) il suo stile: lo stile della lucidità (termine preferito dal suo amico Camus), lo stile dell’integrità personale, o se volete della purezza e autonomia rispetto alle esigenze pragmatiche della politica. Schematizzando e usando un luogo comune abbastanza consolidato, quello che contrappone il tipo del politico al tipo dell’intellettuale, anche nelle circostanze in cui sembrano confondersi, quei due tipi risultano assai poco conciliabili, anzi facilmente in conflitto. Nell’ordinata compostezza e nel ritmo pacato delle argomentazioni di Chiaromonte c’è un’attenzione costante dovuta al rispetto assoluto che lui ha sempre mostrato di avere per l’uso delle parole e il loro rapporto sia con la realtà che con la verità, ma non con immediati scopi pratici da raggiungere. Chiaromonte si vieta sempre sia di confondere realtà e verità, sia di contrapporle. Chi confonde la verità con la realtà rischia immancabilmente il cinismo e l’accettazione dogmatica del “fatto compiuto” sottratto al giudizio: secondo questa ottica della confusione, quanto è accaduto è più che un fatto, è anche un valore. Chi al contrario separa e rende incomunicabili verità e realtà cede da un lato all’astrazione, o meglio all’astrattezza (la verità non ha bisogno della realtà) e cede dall’altro lato a un brutale pragmatismo (i fatti rendono superflua la verità, perché dicono di per sé tutto quello che c’è da dire non solo sul già fatto ma anche sul da farsi).
È giustamente famosa l’affermazione di Goethe secondo cui non esistono “poesie d’occasione”, perché la poesia è sempre d’occasione, nasce dal contatto fra una potenzialità mentale e una circostanza, un dato o un evento esterni. Si potrebbe dire la stessa cosa per la saggistica di Chiaromonte: non esisterebbe, non sarebbe stata mai scritta senza gli eventi e la situazione politica e storica degli anni Venti e Trenta, e più tardi Cinquanta e Sessanta: i decenni centrali del secolo scorso. Il suo pensiero e la sua scrittura sono circostanziali, “in situazione”, pur arrivando sempre a livelli più alti e distaccati di riflessione. Il suo Platone non è un oggetto di studio, è un autore che accompagna Chiaromonte per tutta la vita: lo legge quando partecipa alla guerra civile spagnola nella squadriglia aerea organizzata dal filocomunista André Malraux; lo legge negli Stati Uniti quando collabora con Dwight MacDonald alle riviste politics e The New Republic; né smette mai di riflettere a partire da classici come Stendhal, Tolstoj, Mallarmé, mai ridotti a oggetti di studio, usati invece come fonti di ispirazione e sintomi storici. Come le sue lettere (esemplare la lettera a Caffi), anche i suoi saggi prendono forma nel momento, nei momenti in cui si ha bisogno di chiarezza, di rigore logico e di un’onesta visione della realtà. Mai in lui le idee si confondono con le ideologie, né l’ordine intellettuale con i sistemi e i gerghi filosofici. L’assenza di gergalità, di gergalismi intellettuali è anche ciò che fa di Chiaromonte un vero scrittore. La sua lingua è la lingua di uso comune, anche se illimpidita e irrobustita dal suo instancabile, istintivo bisogno di chiarificazione. Nella prosa italiana di pensiero, Chiaromonte è un autore che forse non ha uguali: non è meno rigoroso di filosofi militanti particolarmente logici e cartesiani come Guido Calogero e Norberto Bobbio: ma Chiaromonte ha, in più, la tensione e il tono di chi scrive soltanto in stato di necessità. Ciò che ne fa uno scrittore è il pathos di urgenza morale del ragionamento e della demistificazione di ideologie correnti. Un pathos, anche, della propria personale solitudine e della inevitabile solitudine di ogni individuo che non riesca a fare a meno della libertà di pensiero. “Aveva ragione Silone”, ha osservato Gustav Herling, “Nicola era immune dalla retorica dominante, non apparteneva a nessuna ‘scuola’ e a nessun ‘gruppo’, voleva essere solo, o in contatto con pochi amici scelti e fidati, e considerava questo una garanzia dell’indipendenza. Leggeva principalmente i classici, in particolare i greci, ma sapeva trovare nel pensiero e nella letteratura moderna tutto ciò che era davvero frutto dell’individualità dell’autore, e non una reazione gregaria o un effimero dettato della moda” (introduzione di Herling a Il tarlo della coscienza, a cura di Miriam Chiaromonte, Il Mulino, 1992, p. 10).
A questo Herling aggiunge che solo un paio di saggi bastano a Chiaromonte (per esempio “Sul fascismo” del 1936, e “Arte e comunismo” del 1952) per anticipare un libro famoso, Società aperta di Karl Popper.
Come per i saggi di Simone Weil, si può dire di quelli di Chiaromonte che hanno una coerenza di insieme pur non diventando mai libri organici, monografici. Il demone letterario degli anni Trenta, lo stile militante tipico di quegli anni, è la simbiosi di letteratura, filosofia e giornalismo. È anche questa la ragione per cui la cultura degli studiosi e degli universitari ha escluso tanto a lungo Chiaromonte e Simone Weil dalle storie della letteratura, della filosofia e del pensiero politico. Troppo vicini al giornalismo per essere considerati scrittori o filosofi. Ma sarebbe toccata più o meno la stessa sorte anche a Orwell, se non avesse scritto bestseller come La fattoria degli animali e 1984.
L’oggetto, il tema di Chiaromonte è sempre stato il “tempo presente”, l’“adesso” di Kierkegaard, lo jetztzeit di Benjamin. La sua è la situazione militante dell’urgenza di chiarezza. Chiaromonte non è un saggista disciplinare, non è esperto e specialista di niente. Non è uno storico, né un politologo, né un filosofo del diritto, né un sociologo. Scrive saggi solidi e approfonditi su fatti e fenomeni di cui si occupavano i giornali. Può quindi essere un giornalista; ed è stato infatti scambiato per un giornalista. In effetti, nelle riviste del Novecento si è prodotta una saggistica parallela al giornalismo dei quotidiani e dei settimanali. Questa saggistica metagiornalistica, che lavora cioè su materia giornalistica, che fa del presente in tutti i suoi aspetti il suo oggetto e campo di intervento interpretativo, è un genere letterario. In Italia, il caso e l’esempio successivo di pochi anni a quello di Chiaromonte è stato il Pasolini “corsaro” e “luterano”, che ricavò da Chiaromonte e da “Tempo presente” più di uno spunto (per esempio sul nuovo conformismo e la nuova tirannia).
Su Chiaromonte scrittore non si può che concludere leggendo qualche pagina. Isolo tre fasi della sua vicenda critica: la fase anni Trenta dell’antifascismo; quella anni Cinquanta su cultura critica, società di massa e malafede; e infine le sue conclusioni anni Sessanta su tecnicizzazione, meccanizzazione dell’umano, scienza e falso progresso.
1) Il saggio “Sul fascismo” è del 1936. Cito:
“Non direi che la parola fascismo abbia, sul piano delle idee chiare, quel significato preciso che il suo uso corrente nel linguaggio comune potrebbe far presumere [...] Invece, dal punto di vista della coscienza, il fascismo è un fatto che non si presta agli equivoci, anzi è di quelli che impongono una scelta molto precisa. La natura di questa scelta è chiaramente riassunta nelle parole di Pascal: ‘La forza si fa riconoscere di primo acchito, e senza discussioni’. Se è lecito parlare in prima persona, dirò che per me il fatto divenne del tutto chiaro e che di conseguenza feci la mia scelta in un periodo molto preciso. A quindici anni ero fascista [...] Da questa parte stava un poeta, D’Annunzio, dai gesti e dalle parole altisonanti, e un trascinatore di folle, Mussolini, che era anche un giornalista dalla penna veemente e sarcastica: dall’altra non c’erano che persone ‘serie’, e non si sentivano che prediche incitanti alla fredda ragione e al calcolo utilitario [...]. Smisi di essere fascista quando mi resi conto che praticare il fascismo significava andare a picchiare nei loro letti i contadini [...] e quando vidi con i miei occhi venti scalmanati aggredire e battere a sangue un povero cristo che si rifiutava di gridare ‘Viva l’Italia’ [...]. Fondamentale per capire il fascismo è poi l’alterazione del vocabolario: che, semplificando progressivamente gli aspetti della realtà, ne livella la coscienza. Questo fenomeno è la facciata ‘totalitaria’ del fascismo, la cui funzione è di fornire un’apparente uniformità a una realtà confusa e complessa. Nel mondo di oggi questa alterazione del vocabolario non è nuova né peculiare del fascismo: è una tecnica che il fascismo ha portato a un certo grado di perfezione ma della quale si servono egualmente tutti gli interessi costituiti con l’uso costante che fanno della propaganda e della moderna tecnica della persuasione. Insomma si tratta di pubblicità” (nel Meridiano, pp. 107-108 e 110).
In poche righe c’è il poliedro di un fenomeno, di una situazione e di un’esperienza. Il rapporto fra assenza di idee chiare e brutalità, lirismo retorico e retorica facinorosa; infine la scelta necessaria perché, nello stesso tempo, emotiva e morale (il povero cristo picchiato a sangue). Infine il vocabolario alterato in senso propagandistico e pubblicitario, i due rami della tecnica della persuasione di massa nel Novecento. Chiaromonte usa poi Pascal, uno dei più grandi moralisti europei, come antidoto al linguaggio di D’Annunzio e di Mussolini. Esperienza autobiografica e giudizio culturale si intrecciano. Autobiografiche in Chiaromonte sono le idee stesse, mai semplicemente prelevate dall’archivio culturale, ma vissute e meditate nel corso di una vita.
2) “Il tempo della malafede” è un saggio del 1952 (pp. 878-893). In questo caso Chiaromonte propone un tema nuovo e tipicamente suo: l’idea di fede non sarebbe più applicabile alla cultura e alla politica del Novecento, perché caratterizzate entrambe da una fede falsa o malintesa: un credere di credere, un fingere una fede che non c’è, ma che serve esibire. Solo uno scrittore morale capace di acume introspettivo poteva cogliere un tale fenomeno storico, un fenomeno di deformazione degenerativa dell’autocoscienza, o più precisamente del comportamento pubblico e sociale che ha direttamente a che fare con le ideologie in quanto surrogato delle idee e delle convinzioni: e tutto al servizio di scopi pratici da raggiungere. Nell’ambito del linguaggio, così, le formule e gli slogan si sostituiscono al senso comune e alle esperienze e conoscenze reali. La malafede è fatta di “menzogne utili” che servono a spiegare il mondo in cui si vive in sostituzione delle “verità inutili”; o più semplicemente del fatto che le verità possono essere (e spesso sono, o sembrano) inutilmente difficili da usare e da manipolare. L’ortodossia comunista, per esempio, crea una mentalità “impenetrabile alla verità”, che “è vano tentare di confutare con argomenti di ragione” e perfino con il semplice riconoscimento di dati di fatto. “Quello che l’intellettuale troppo spesso dimentica”, dice Chiaromonte, “è che il dogma è uno strumento di disciplina per l’azione, e non semplicemente un sistema intellettuale chiuso in sé stesso”. Per esempio: “dietro Marx, una volta elevato sugli altari del dogma, cioè ridotto a idolo, c’è il Partito comunista e c’è lo Stato sovietico” visti come l’incarnazione delle teorie di Marx. È una mentalità, si potrebbe osservare, che si è conservata intatta fino a oggi, anche nella Russia postcomunista e noncomunista di Putin. La malafede, qualunque sia il suo contenuto, è “settaria” anche quando coinvolge un’intera società, perché dà agli individui “la sicurezza di una verità inconfutabile”, una sicurezza di cui credono di avere bisogno.
3) “La bestia meccanica” è un saggio del 1967 e tratta della falsa fede nel progresso sostenuta dalla scienza produttrice di tecnica. È uno dei testi più efficaci e più avveniristicamente sinistri di Chiaromonte. In questo caso la malafede non ha a che fare con ideologie politiche: “la credenza sembra rimanere quella che il progresso materiale (industriale, tecnologico, scientifico) porta con sé automaticamente quello morale; o, per essere esatti, che l’uno non si distingue dall’altro”. Qui Chiaromonte va oltre la politica perché “la politica, oggi, è diventata un’evasione, come il cinematografo”. Si tratta di qualcosa di più insidioso, sia nel presente che nel futuro. “È un mito, la macchina: la realtà, se di realtà si può parlare, sta in ciò che l’uomo crede di essa [...] fra l’uomo e la macchina, la questione non è se l’uomo riuscirà a padroneggiare la macchina, bensì se egli possa padroneggiare l’uomo che padroneggia la macchina”. Il progresso è ridotto a un continuo “cambiamento” fine a sé stesso e “questa meccanizzazione della vita associata significa di più che il ‘regno delle macchine’ perché è l’instaurazione di un sistema autoritario di specie nuova”. Infine: “la macchina, mentre ha bisogno dell’uomo addestrato, non ha alcun bisogno dell’uomo civilizzato [...]. Uno dei segni propri della barbarie contemporanea è la tendenza a confondere i due tipi, anzi a considerare il primo l’equivalente del secondo”.
E questo riguarda, dice Chiaromonte, tanto gli Stati Uniti quanto la Russia e la Cina. Mi chiedo: sarebbe questa “la massima felicità possibile del massimo numero possibile” come scopo del progresso?
Chiaromonte fu tanto ignorato in Italia perché era un antifascista antitotalitario, cioè anche anticomunista. Temo che oggi rischi di essere ignorato ancora una volta in quanto nemico e critico della sviluppo della tecnica inteso come progresso della civiltà: una forma di tirannia e di schiavitù di cui i nuovi schiavi non si accorgono, anzi gioiscono.
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