“Nacqui da poveri, ma onesti genitori, nella città di Firenze, una sera di primavera del 1912”. Dall’alto della sua splendida giovinezza, che non si è mai totalmente infranta contro gli schemi convenzionali dell’anagrafe, Joyce Lussu (nata Gioconda Salvadori e sposa di Emilio Lussu, uno dei protagonisti della storia dell’antifascismo italiano), donna tra le più incredibilmente battagliere che la storia del nostro paese riesca ad annoverare, scrisse libri ricchi di esperienze e di attente riflessioni, proiettate a rivisitare la sua vita intensamente vissuta, sempre in un itinerario che non ha mai affievolito impegno e coerenza.
Nel volume La Sibilla: vita di Joyce Lussu, ed. Laterza, Silvia Balestra compie un elogio sincero, lucido, dell’amore per la libertà sviluppato da Joyce, tessendo un mosaico di episodi in cui protagonista non è un disarticolato e scomposto senso dell’avventura, ma una pacata riflessione alla ricerca di ciò che nella vita ha il significato concreto di quello che vale, di ciò che nobilita i valori duraturi, non commerciabili, non contrattabili con nessun genere di mercanzia. Nessuno meglio di lei, nonostante la sua precisione nel dichiarare il suo luogo di nascita, ha fino a oggi interpretato con tanta fantasia e tanta sincerità la figura del cittadino del mondo, capace di ascoltare, di integrarsi nella labirintica fantasia delle culture più lontane. Anche le più faticose da inserire nell’intelligenza della tolleranza. Così diventa speculare l’amore che Joyce Lussu ha avuto per la propria volontà che ha curato -non è retorica o santificazione del personaggio- con lo stesso “amore d’artista” con cui un tale Che Guevara andava in giro per il mondo inseguendo i suoi sogni di utopia. Speculare il suo desiderio che le stesse ansie di liberazione, di rispetto di se stessi, di utilizzo di un linguaggio ragionevole, diventassero patrimonio per un confronto, non solo con una astratta umanità, non meglio identificata, ma soprattutto come dono carismatico che può regolare, sovraintendere i rapporti personali tra coloro che hanno la ventura di incontrarsi, di stabilire relazioni e di conoscersi. Prigioniera delle Ss a Parigi, riuscì a farsi liberare spacciandosi per cittadina francese. Sostenne il marito in cento avventure nel corso della guerra. Si oppose a “un giovane fascista che la percuoteva mentre pubblicava (sic!) le sue opinioni politiche su un muro vicino casa”.
Ma questo non è che un episodio della sua vita avventurosa, legata a un coraggio indomito. Aveva sposato a Ginevra, con un matrimonio assolutamente laico (testimoni Emanuele Modigliani, parlamentare socialista, fratello di Amedeo e Silvio Trentin), Emilio Lussu, rivoluzionario sardo che, accusato di omicidio per avere ucciso in Sardegna due fascisti che cercavano di entrare in casa sua attraverso una scala poggiata al secondo piano, li fulminò con due colpi di pistola. La magistratura riconobbe la legittima difesa e lo mandò assolto. Con un mazzo di fiori in mano, davanti ai due testimoni, Lussu disse: “Ecco la mia sposa”.
Iniziarono insieme un itinerario di lotte e di sofferenze esemplari. Lussu per qualche tempo aveva partecipato alla guerra civile spagnola, dalla quale dovette allontanarsi per un grave attacco di tubercolosi. A Parigi, nel 1940, dovettero affrontare i tormenti dell’invasione nazista. Costretti a cambiare casa in continuazione, Joyce, nel suo splendido libro Fronti e frontiere (ed. Laterza), racconta: “I libri e la macchina da scrivere erano gli unici beni che cercavamo sempre di portarci appresso, per il resto i nostri averi entravano tutti in una valigia. Ero abituata a non possedere oggetti o a perdere senza rammarico le poche cose che avevo. Non avevo mai posseduto mobili o soprammobili o stoviglie o biancheria di casa e tanto meno un quadro o un oggetto d’arte o un ricordo. Dovevamo distruggere anche le lettere e le fotografie per non lasciare indizi alla polizia. Gli oggetti inalienabili come le abitudini appesantiscono, anche psicologicamente. Io mi sentivo molto leggera”.
Una vita in fuga: Parigi, Marsiglia, i Pirenei, la Spagna e poi Lisbona, Gibilterra. Al confine con la Svizzera vengono fermati da una pattuglia tedesca agguerrita e insolente. Joyce si altera e sfida i nemici vantando la sua falsa cittadinanza francese. Viene liberata e con coraggio straordinario si affaccia alla cella dove è rinchiuso il marito e gli intima: “Ce ne possiamo andare”. In Francia c’erano Saragat, Fausto Nitti, il genero di Nenni e la figlia poi deportata ad Auschwitz, dove morirà lasciando un tragico messaggio al padre: “Muoio per difendere le tue idee”. Il parlamentare socialista Emanuele Modigliani abitava in un villaggio della Garonna. Lussu era venuto a sapere che la Gestapo lo ricercava. Joyce si recò a casa di Modigliani e con mezzi di fortuna lo accompagnò alla frontiera con la Svizzera. Modigliani, anziano, era riluttante all’espatrio clandestino, ma alla vista di una pattuglia di poliziotti, Joyce, con piglio deciso, spinse oltre la siepe del confine l’anziano antifascista con la moglie Vera. Missione compiuta: qualche giorno di carcere e poi liberata dagli alpini italiani che presidiavano il territorio. Il suo fascino era sicuro e disinvolto.
Separata da Lussu (così lei lo chiama sempre), decide “non per telepatia ma piuttosto per una profonda conoscenza reciproca e un rigoroso calcolo della probabilità. Fatto sta che viaggiai fino a Imperia e lì decisi di scendere per aspettarlo alla stazione. Col primo treno in arrivo vidi Lussu che si sporgeva dal finestrino facendomi segni di saluto”.
La guerra andava a finire. Lussu militava nel Partito d’Azione ed era molto impegnato. Joyce girava le cittadine del Mezzogiorno per comizi e contatti con la popolazione per le prime elezioni della nuova democrazia. Alla sera, nelle sezioni di sinistra trovava solo compagni uomini.
Tremenda e corrosiva chiedeva: “Dove sono le vostre donne?”. Tutti rispondevano: “Non sta bene per una donna uscire alla sera”. E Joyce: “Allora io sarei una puttana che sta in mezzo agli uomini da sola? Se non portate qui le vostre donne io me ne vado”. E le donne accorrevano con gioia. Fu decorata con una medaglia al valore militare con il grado di capitano e una pensione di 750 mila lire. Il racconto della consegna dell’onorificenza è esilarante: “Un alto ufficiale si trovò in grande disagio per dover appuntare una medaglia sul petto prosperoso di una giovane donna”. Dire che Joyce sia stata una “femminista” ante litteram appare limitativo per una persona che da sempre si è battuta contro la coscienza di sfruttata, soprattutto nel rapporto di coppia che la donna stava conquistando, in uno scontro con la realtà quotidiana sulla cui natura si costruiscono le più disparate e a volte oscure analisi. Confessava che il marito Emilio mal sopportava le costrizioni coniugali, ma lei lo convinse. Nel volume antologico (tra le altre Natalia Aspesi e Angela Grotti) Che cosa è un marito, ed. Mazzotta, con grande tenerezza Joyce spiega: “Mi detti da fare per dimostrare a Emilio che la vita di coppia non è un ostacolo per il militante rivoluzionario, ma un vantaggio. Un certo tipo di coppia, naturalmente, e io mi sentivo all’altezza: dal punto di vista esterno, una coppia ben sincronizzata, evidentemente serena, riscuote simpatia e fiducia. Nella vita clandestina questo elemento si rivelò particolarmente prezioso. Per la polizia di allora il rivoluzionario era ancora un irregolare, un fanatico antisociale. Una coppia raggiante onesti affetti non rientrava nello schema. Per cui, dove Emilio e io da soli non saremmo mai passati, in coppia passavamo tranquillamente senza suscitare sospetti”. Negli ultimi anni della sua vita, una bella capigliatura bianca, con un grande scialle nero sulle spalle, ebbe grande successo nelle trasmissioni del Maurizio Costanzo show. Spiegando che, grazie a uomini e donne spesso asserviti, ma tenacemente vitali, che con pazienza e intelligenza non hanno mai cessato di ritessere i fili della vita quotidiana, lacerata dai traumi delle guerre e delle servitù, assicurava per tutti la continuità della sopravvivenza solidale e del dialogo tollerante. Fu amica del grande poeta turco Nazim Hikmet e di tanti poeti di tutti i continenti. Tra i versi di Hikmet da imparare a memoria, quelli della poesia “Alla vita”.
La vita non è uno scherzo/ Prendila sul serio/ ma sul serio a tal punto/ che a settant’anni, ad esempio pianterai degli ulivi/ non perché restino ai tuoi figli/ ma perché non crederai alla morte/ pur temendola,/ e la vita sulla bilancia/ peserà di più”.
Joyce Lussu è stata autorevole Sibilla capace di inventare azioni, moti e fantasie con colori sempre nuovi e diversi, sognati e sognanti migliori destini, per guardare con occhi innocenti a un raggio di sole che illumini lo scenario di un mondo nuovo, nel quale rigore ed etica severa siano testimoni di uno stare insieme senza fare ricorso alla violenza che Joyce nel suo vivere ha sfidato troppe volte. È mancata nel 1998. Un cippo all’ingresso del cimitero degli inglesi al quartiere Testaccio insieme al suo amato Emilio li ricorda alle nuove generazioni.