Nelle università italiane insegnavano 863 professori ordinari, 985 incaricati, 77 straordinari e 2.638 liberi docenti. Le cattedre stabili erano 1848. Di questi, 1836 giurarono. Dodici si rifiutarono. Tra questi Piero Martinetti, Bortolo Nigrisoli, Francesco Ruffini e il figlio Edoardo, Lionello Venturi.
Borgese ebbe un destino diverso nel senso che docente a soli 27 anni all’Università di Milano, prima di letteratura tedesca e poi di estetica, lentamente con pacata riflessione approdò alla scelta di preferire l’esilio alla sottomissione alla dittatura. Aveva alle spalle un lungo itinerario culturale. Fondò la rivista “Hermes” da cui prende le mosse una riflessione che avrebbe spazzato via tanta lirica smodatamente esultante post dannunziana, banale, quasi mai originale e che avrebbe fatto prendere coscienza della crisi di un’epoca, dei nuovi sbocchi del clima decadente, con una corrente poetica che da Borgese fu battezzata “crepuscolarismo” per la prima volta in un articolo su “La Stampa” di Torino del settembre del 1910. Qui Borgese fissava la corrente poetica del “crepuscolo” nell’ambito della grande stagione poetica rappresentata dai grandi maestri della tradizione ottocentesca. Borgese intendeva designare un fenomeno temporaneo e contraddistinguere una fase di assestamento, in attesa di quella ripresa di una coscienza morale e poetica che per il momento appariva perduta. Ma al rifiuto della poetica di D’Annunzio, affiancò il rifiuto di Croce che pure aveva lodato la sua tesi di laurea intitolata “Storia della critica romantica in Italia”. Subito i contrasti con Croce divamparono acuti. Borgese considerava l’opera d’arte come specchio della vita nazionale e sociale e pertanto doveva essere valutata in funzione di questa. Croce intendeva l’arte come irriducibile individualità, come intuizione lirica anteriore ed estranea alla logica e alla volontà, come liricità pura che negava qualunque continuità di sviluppo nella storia dell’arte, frantumata come sosteneva “nelle monadi senza finestre delle singole individualità poetiche. L’ultimo romanticismo è ormai estetizzante e privo di vitalità spirituale”.
Prima e durante la Prima guerra mondiale, Borgese fu interventista su posizioni nazionaliste che rifiutavano ogni mito razziale. Nel 1921 diede alle stampe il suo capolavoro “Rubè”, biografia di un giovane meridionale che si perde nella ricerca di se stesso e di una sua collocazione ideologica e sociale a contatto delle esperienze della guerra. Sempre in bilico tra una verifica delle proprie qualità e un impegno pubblico piuttosto cercato che veramente vissuto, Rubè sconta questo disagio con una morte priva di senso. Borgese scoprì con durezza i rapporti tra fascismo e capitale (“i padroni del vapore” li chiamerà beffardamente Ernesto Rossi). Rubè morirà sotto le zampe di un cavallo lanciato contro i manifestanti. “Gli restò tempo di vedere il primo cavalleggero che lo calpestò. Era giovanissimo, biondo, col viso quieto e clemente. Certo aveva gli occhi color del cielo”. In una mano Rubè teneva uno straccio nero, nell’altra uno straccio rosso. La perfezione di una inconsistenza dei valori nei quali credere. Nel romanzo c’era l’ansia sincera di “uscire” dalla letteratura per scoprire l’altra Italia, povera, non ufficiale, nuda nelle antiche ferite e nella vitale violenza popolare. La verità si cercava ora nella cronaca e perciò nella “denuncia”; la storia autentica si cercava nel “mondo offeso”, non compromesso con la cultura, naturalmente votato a una ideologia della protesta, istintivo e dialettale, sempre orientato verso la problematica dell’attualità politica e sociale, confluita in una prospettiva assai nuova di neorealismo, sulla quale, abbiamo visto, Croce non era d’accordo.
Il romanzo è la prima contestazione delle mitologie dannunziane e mette in luce con un’analisi lucida e spietata l’arido estetismo, le infatuazioni per la vita inimitabile, la retorica del bel gesto che tanta suggestione aveva creato tra la piccola borghesia e tra gli intellettuali. E il perso ...[continua]
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