Ho tante domande e nessuna ha risposta: tradiamo perché non siamo più quelli e quelle di prima, o tradiamo perché siamo come quelli e quelle di prima mentre il mondo è cambiato? Tradiamo perché non stiamo con chi protesta, anche se la nostra generazione ha creato il grosso di quello che c’è, o perché abbiamo perso?
A volte mi pare di vivere in un mondo che mi ricorda un racconto della mia infanzia: un bambino deve portare del burro e se lo mette in testa. C’è il sole, il burro si scioglie e lo sgridano: “Dovevi metterlo in acqua”, gli dicono. La volta dopo deve portare una gallina, la mette in acqua e quella annega. “Dovevi metterla in un cesto” gli dicono sgridandolo. La volta dopo deve portare del latte: lo mette nel cesto e quello cola per strada. E così via. La storia mi è rimasta impressa perché pone un interrogatvo: si può imparare dal passato quando le circostanze cambiano? E se invece le circostanze di fondo non cambiassero e quindi servisse? Pone anche gli interrogativi del pensiero lineare che non funziona quando ci sono troppi cambiamenti di stato. Come spesso amo dire, se non sapessimo che l’acqua bolle a cento gradi, sarebbe ragionevole pensare che continui a scaldarsi anche oltre. Questo sarebbe un pensiero lineare che permette previsioni sui dati. I cambiamenti di stato non permettono previsioni invece, sono un ex post, come sapere che a cento gradi l’acqua cambia di stato. E che parametri usiamo oggigiorno? Abbiamo scambiato informazioni per la capacità di pensiero? Come fossimo noi i computer.
Oggi essere progressisti vuol dire cercare il passato, le “vere” origini delle persone e delle cose? Non immaginarsi il progresso? Vere origini che magari non esistono o magari sì. Quando ero giovane essere progressisti voleva dire immaginare un futuro, oggi vuol dire immaginare un passato? Allora si vedeva il che cosa e non il chi. Ingenuamente pensavamo che poi la rivoluzione avrebbe messo a posto tutto. Che il generale avrebbe messo a posto lo specifico.
Oggi si porta molto l’identificazione che a mio parere ha più a che fare con la fede che non con la ragione. Mentre l’identificazione non ha funzionato con il femminismo (il cosiddetto affidamento con le donne al potere), funziona bene con l’etnopolitica. Nelle ultime elezioni amministrative in Gran Bretagna si intravede il crollo dei conservatori (anche se non sempre le amministrative corrispondono alle locali) e il risorgere dei laburisti, salvo nelle zone musulmane (nonostante sindaci, primi ministri e capi di partito musulmani o indù in tutto il paese). In quelle zone hanno vinto candidati musulmani presentati dal partito dei lavoratori (Workers Party of Britain di Galloway, quello che era amico di Sadddam) o dai verdi. Un consigliere dei verdi, Mothin Ali, eletto nella circoscrizione di Cripton e Harehills a Leeds, ha celebrato urlando Allahu Akbar e dando dell’islamofobico a chi lo criticava. Quindi identificazione totale che per suo essere non ammette critica. L’etnopolitica, lo spostamento al chi fa sì che per esempio nessuno legga il manifesto di Hamas (1988, con emendamenti nel 2017). E lo dico senza nulla togliere alle sofferenze di Israele e dei palestinesi. Hamas è per la nazione islamica universale, la donna viene definita fattrice di uomini, moglie... e sorella. Il testo attacca chi ne vuole la liberazione (sionisti, massoni e il Rotary (sic!?) - art. 17 della carta). Non credo che chi inneggi ad Hamas (ovvero urlando “dal fiume al mare”) voglia la morte dei gay e la lapidazione delle adultere, ma diciamo che l’identificazione poté più del pensiero, e nelle identificazioni etniche e nazionali le donne mi pare ci perdano quasi sempre. Ho difficoltà a identificarmi e preferisco il pensiero. Non so che parte di me tradisco o tradirò, ma so che lo farò.
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