“Si arriva a fatti di questa specie: una ragazza porta un garofano rosso; è privata violentemente del garofano; essa risponde con un doveroso schiaffo alla guancia del fascista: la questura si precipita ad arrestare la ragazza”.
Nel frastuono e nelle urla della Camera dei deputati, il 31 gennaio del 1921 Giacomo Matteotti attacca frontalmente Giolitti, presidente del consiglio e ministro dell’interno che, con questori e prefetti, assiste impassibile alle violenze che le prime squadracce fasciste compiono, non solo contro i socialisti, ma anche contro la popolazione inerme. Anche di giovani che subiscono violenze contro la verità.
L’episodio ricordato da Matteotti mal si concilia con la beffarda arroganza di Mussolini che il 9 maggio 1923 minacciava: “Se le pecore rognose la cui malvagia opera quotidiana contro il fascismo abbiamo più volte occasione di rilevare, vanno veramente in cerca di dispiaceri, non è escluso che possano averne di molto gravi. Quanto al Matteotti volgare mistificatore, notissimo vigliacco e pregevolissimo ruffiano, sarà bene che egli si guardi intorno”. Infatti negli stessi mesi Matteotti fu per qualche ora sequestrato da fascisti che lo violentarono con un bastone o con la canna di una pistola. Matteotti sopportò in silenzio.
Aveva solo 39 anni Giacomo Matteotti, quel pomeriggio del 10 giugno 1924, quando in Lungotevere Arnaldo da Brescia, fu aggredito da una banda di fascisti comandata da Amerigo Dumini che, dopo pochi minuti, nonostante la coraggiosa e disperata resistenza del giovane parlamentare, lo uccise con una pugnalata al cuore. Su un’auto trasportarono il cadavere non molto lontano, per seppellirlo sotto pochi centimetri di terra lungo il Tevere. A un secolo di distanza è accertato che la morte del leader socialista non fu un incidente, così come raccontato dalle interessate cronache fasciste. La banda aveva il compito di uccidere Matteotti e i mandanti furono sia Mussolini sia l’ombra dei Savoia. Matteotti aveva scoperto un giro di corruzione che coinvolgeva Mussolini per la concessione petrolifera in Libia da assegnare alla londinese Sinclair Oil.
Oltre a questo caso di palese corruzione, nel suo ultimo intervento alla Camera del 30 maggio 1924, aveva elencato e denunciato con precisione da contabile, ma con l’indignazione di un vero democratico, le violenze, le aggressioni e le intimidazioni messe in atto dalle bande fasciste durante le elezioni politiche del 6 aprile. Quelle elezioni si erano tenute sulla base della legge Acerbo, che prometteva al vincitore un larghissimo premio di maggioranza. Così Mussolini ottenne una vittoria schiacciante: due terzi dei deputati eletti (374 su 535) fascisti, contro appena una quarantina di popolari, una quarantina di socialisti (tra Psi e Psu) e una ventina di comunisti. Ma a giudizio di Matteotti, l’intera tornata di votazioni era stata solo un gigantesco broglio: perché “il Governo non si sentiva soggetto al responso elettorale e aveva lasciato capire a tutti che avrebbe mantenuto il potere con la forza. Sicché ciascun cittadino sapeva a priori che, se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso”. Con tono di scherno il ras fascista Farinacci urlò: “Potevate fare la rivoluzione”.
I brogli, le provocazioni, le violenze denunciate da Matteotti, gli costarono la vita. Cent’anni dopo raccogliamo quel discorso come essenza di ogni battaglia democratica contro il fascismo. Parole che, come Matteotti aveva profeticamente anticipato, preludevano al suo “elogio funebre”.
Nessuno ha ricordato, in questi giorni, che Matteotti era stato assai critico contro la presa del potere da parte di Mussolini, per i consistenti aiuti che aveva ricevuto e dagli agrari e dagli industriali, i quali pervicacemente cercavano di mantenere un ruolo egemonico nell’economia del paese, dopo i guadagni ottenuti con la fornitura di armi all’esercito italiano: Agnelli e Pirelli in testa, come testimonia il bel volume di Ernesto Rossi Padroni del vapore e Fascismo, ed. Laterza.
Matteotti disegna, all’indomani del 1918, con un impegno politico solitario, con lucidità e con l’attenta analisi delle cifre, un affresco importante della geografia economica e sociale italiana e dell’iniquità dei provvedimenti sociali del fascismo, tutti tesi a privilegiare i settori forti dell’economia. Dati che confermano la profonda ingiustizia sociale, ma anche le grandi incompetenze tecnico-economiche del fascismo. Il dossier politico presentato da Matteotti alla Camera è completato dalla pubblicazione delle “parole dei capi” e delle cronache dei fatti che documentano come capillarmente la violenza e l’intimidazione fascista, con il bavaglio alla stampa, avesse spento la democrazia creando le premesse per la dittatura.
I suoi assassini, difesi da Farinacci -che aveva perso una mano pescando con le bombe in un’oasi africana e per questa mutilazione si era meritato la medaglia d’argento al valore- furono condannati a pene ridicole.
Matteotti, per le sue idee politiche, per il suo rigore etico, condusse una battaglia solitaria contro i prodromi della dittatura. Antonio Gramsci ebbe a scrivere che Matteotti, lontano dagli schemi ideologici del comunismo, “era un pellegrino del nulla”. Combattente tenace, secondo l’intelligente leader comunista, fino al sacrificio di sé, sostenitore di un circolo vizioso di lotte, di agitazioni, di sacrifici senza risultati e senza via di uscita.
Quando all’inizio del ’24 fu sciolta la Camera per andare a votare con la legge Acerbo, che attribuiva, come già detto, un premio consistente a chi avesse raggiunto un primato di seggi, mentre i fascisti annunciavano di fare un blocco con i vecchi liberali, Palmiro Togliatti, convinto che il fascismo fosse una degenerazione del capitalismo borghese, annunciò che non pensavano di allearsi con i socialisti considerati pronti ad alleanze con i partiti della borghesia. Matteotti replicò: “Con questo atteggiamento rendete assolutamente impossibile l’intesa, ma anche vana ogni discussione. Se tale era il vostro scopo lo avete indubbiamente raggiunto. Ma non vi sarà permessa la solita comoda manovra per caricare su di noi la responsabilità, che è vostra, di avere diviso e indebolito il proletariato italiano nel momento più grave di oppressione e pericolo”.
Il 21 gennaio 1924 muore Lenin. Poche settimane dopo Gramsci fonda il giornale “l’Unità”. Il primo titolo è “la via maestra”: un invito alla ripresa della lotta proletaria per impedire che il fascismo, considerato un fenomeno momentaneo, passi “senza avere trasformato radicalmente lo spirito delle masse”. Matteotti aveva meglio colto la tragicità del momento: “Lo stesso Benedetto Croce, che diventò negli anni duri e tragici la coscienza morale dell’opposizione -come ricorda Norberto Bobbio- accolse il fascismo ai suoi primordi come una malattia, però una malattia leggera e passeggera, una specie di influenza che, una volta passata, non lascia tracce, anzi, rende il corpo ancora più vigoroso e resistente al male. Con altra metafora, si potrebbe dire che i conservatori scambiarono una bestia selvatica, che sarebbe diventata feroce, per un animale domestico o almeno addomesticabile. Andarono per addomesticarlo, ma ne furono prima soggiogati e poi divorati. Il fascismo antidemocratico e antipopolare fu la naturale e fatale continuazione della nostra storia fatta del servaggio di molti e della prepotenza di pochi”.
Matteotti lasciò una moglie, Velia Titta, e tre bambini. Erano molto innamorati. Lui, spesso lontano, ebbe a scriverle: “Tu sei la mia vita, la parte più bella della vita, che non può fallire mai, che non mi può mancare mai, so che in ogni momento il tuo pensiero può trovare il mio, in perfetta unità d’amore”. Velia e i figli Giancarlo, Matteo e Isabella furono tenuti ossessiva    mente sotto controllo dalle spie fasciste per timore che fuggissero all’estero. I ragazzi esentati dalle attività parafasciste.
A suo nome furono intitolate molte brigate partigiane. La sua tomba a Fratta Polesine, dove il suo corpo fu tumulato solo nel 1928, per le minacce che alla salma venivano profetizzate, fu oggetto di profanazioni, tanto che fu necessario costruirvi intorno un’alta cancellata, deturpata anche quella. Poiché la mostruosità dei comportamenti umani rasenta spesso turpitudini animalesche, contro il parlamentare socialista venivano scandite parole vergognose: “Con la carne di Matteotti faremo salsicciotti”...
Circa quattromila siti toponomastici sono intitolati al martire antifascista in tutta Italia. Il centenario della sua morte è stato ricordato con copiose pubblicazioni sulla sua vita. Per non farci dimenticare che anche la cultura può essere merce. La migliore rievocazione di questa figura è il volume di Vittorio Zincone, Matteotti, dieci vite, ed. Neri Pozza, che con precisione ed emozionato rigore ci ricorda che la figura di Matteotti non è solo il nostro passato, ma anche illuminante impegno di coerenza politica fino al sacrificio estremo. “Matteotti era un socialista, un uomo delle istituzioni, promotore di giustizia e di libertà -ha scritto Liliana Segre- aveva organizzato e protetto i contadini della sua terra, sfruttati e affamati da quegli agrari che furono i primi foraggiatori della ‘guerra civile fascista’. Matteotti era il primo, il più coraggioso, il più intransigente dei nemici del fascismo”.
Matteotti è testimone di una solidarietà umana inclusiva di sofferenza e tragedia, oltraggiata dalla crudele, stupida intolleranza che, perdente di fronte agli ideali di democrazia, preferirà spegnere con un orrendo assassinio la luce coraggiosa di un uomo a cui la storia del nostro Paese deve sempre molto. Ma è certo che dopo la sua morte, la storia italiana subì una tragica deformazione, foriera di catastrofi mai dimenticabili. E troveremo nel 1953 l’assassino Dumini, iscritto al Msi governato da Giorgio Almirante.