Riconoscere adesso lo stato di Palestina. Perché adesso? Perché solo adesso? Perché proprio adesso? Perché io, israeliano ebreo e cittadino anche italiano, chiedo che il governo italiano segua l’esempio di Spagna, Norvegia, Irlanda e Slovenia, dopo che 151 stati rappresentati all’Onu l’hanno proposto? Come spiegare che solo Israele, gli Usa, per ora, e la Micronesia (più forse alcuni stati sovranisti europei) cercano di impedirlo? Come spiegare il fatto strano che la destra israeliana si oppone agli Usa, mentre la sinistra invece non potrebbe che essere favorevole alla loro politica, anche se neo-colonialista? Gli Usa infatti, pur sostenendo ancora militarmente Israele, incominciano a parlare sul serio, assieme all’Arabia Saudita, della soluzione a due stati in Terra Santa.  
Il parlamento israeliano, dalla destra sovranista e protofascista fino alla cosidetta sinistra sionista ha dichiarato quasi all’unanimità che riconoscere adesso il diritto di autodeterminazione palestinese, dopo il pogrom spaventoso fatto da Hamas il 7 ottobre scorso, sarebbe un premio al terrore. Proprio al contrario! Hamas, assieme alla destra colonialista e al primo ministro israeliano Netanyahu, rifiutano la soluzione dei due stati conviventi in pace in Terra Santa, ognuno pretendendola tutta per sé, con supremazia musulmana quello, o ebraica questo: anzi sono complici persino a bocciare ogni proposta di terminare la guerra e il terrore e scambiare gli ostaggi e i prigionieri. Quindi riconoscere proprio adesso lo stato di Palestina, in mezzo alla terribile guerra di vendetta feroce e di terribile ritorsione, sarebbe una sconfitta per tutti e due i campi fanatici, estremisti, sanguinosi e guerrafondai. E sarebbe la vittoria di coloro che da anni si oppongono alle dottrine di supremazia e monopolio che hanno prodotto finora solo sangue e distruzione: le dottrine fondate sul principio “se non si riesce con la forza, si deve fare ancora più forte” sono crollate dal 7 ottobre e durante questi otto mesi di guerra inutile e disastrosa  anche per gli israeliani e anche per i palestinesi.
Il diritto all’autodeterminazione non deve e non può dipendere dalla volontà di un altro popolo. Il processo, incominciato con buone intenzioni a Oslo nel 1993, è fallito negli anni seguenti non solo a causa dell’opposizione estremista dalle due parti, i terroristi palestinesi e i fanatici ebrei, dell’assassinio del Premier israeliano Rabin, dell’espansione delle colonie e dell’esproprazione dei terreni occupati in Cisgiordania; il fallimento è stato dovuto anzitutto alla diseguaglianza estrema tra le parti in gioco, tra lo Stato d’Israele con l’economia, l’esercito e la società civile così forti e i palestinesi, deboli, poveri, frammentati anche geograficamente e anche politicamente, assenti di sostegno sincero persino dagli stati arabi.
Questi già nel 1948-49 avevano impedito la formazione dello stato arabo in Palestina a fianco dello stato ebraico, Israele, come previsto nella decisione 181 dell’Onu del 1947. I motivi allora erano forse comprensibili, avendo gli arabi perso, in pochi mesi di guerra da loro iniziata, il controllo di una terra santa anche per loro, in cui la grande maggioranza araba della popolazione si trovò profuga e divenne piccola minoranza. Ma dopo l’occupazione fulminante della Cisgiordania e della striscia di Gaza nel 1967, in risposta alle minacce dell’Egitto, della Siria e della Giordania assieme, ecco invece che dal 2002 tutta la Lega Araba, con l’Arabia Saudita a capo, propone pace e legittimazione d’Israele in cambio del riconoscimento israeliano della Palestina al suo fianco. Del resto, la Palestina esiste già di fatto, con passaporti, bandiera, rappresentanza diplomatica e presenza internazionale.
Questo spiega dunque perché adesso sia forse possible mettere in moto un processo di legittimazione reciproca. Ma aggiungo un altro argomento: il riconoscimento della Palestina può aumentare la propabilità di successo di tale processo, perché ridurrebbe, per lo meno simbolicamente e diplomaticamente, la diseguaglianza enorme tra le due parti.
Sia tra gli israeliani quanto tra i palestinesi, non mancano, anche se in minoranza assoluta, le persone e i gruppi di buona volontà che parlano separatamente (o ancora meno in gruppetti misti) del “giorno di poi”, cioè di quale potrebbe essere un futuro migliore per questa terra impregnata di sangue e per questi due popoli destinati a convivere. Anche fattori esteri, persino del peso di potenze internazionali o regionali come gli Usa e l’Arabia Saudita, dalle quali Israele da una parte e i palestinesi dall’altra sono quasi totalmente dipendenti, non riescono a imporre proposte costruttive, né l’arresto delle azioni militari e tanto meno l’inizio di trattative. Deve essere chiaro che tutti questi programmi o proposte non hanno nessun valore finché non vengano esposti, discussi ed elaborati in un processo dialettico diretto tra i rappresentanti ufficiali (democraticamente o meno eletti o riconosciuti) dei due popoli. Il riconoscimento del mondo intero della Palestina come espressione politica del dirittto di autodeteminazione del popolo palestinese, proprio come Israele è l’espressione politica dello stesso diritto del popolo ebraico, potrebbe creare una bilancia più equilibrata per le trattative. Forse riuscirebbe anche a isolare e ridurre l’influenza nefasta dell’Iran. Anzi, il riconoscimento generale della Palestina potrebbe influire sull’opinione pubblica israeliana, che da anni è stata abituata a dichiarazioni “pacifiste” vuote, senza doverne assumere il prezzo: riconoscimento reciproco e rinuncia al monopolio e alla supremazia ebraica dei diritti, sia storici e nazionali, sia militari, sia economici in Terra Santa.
Uno degli slogan migliori delle manifestazioni contro la guerra e per liberare gli ostaggi ancora detenuti da Hamas, vivi o morti, dice: “Solo la pace dà sicurezza”, e infatti le uniche frontiere da cui non si spara contro Israele sono quelle dell’Egitto e della Giordania, con cui perdurano gli accordi di pace. Ma il pubblico israeliano, scosso dal pogrom, non si ricorda che la dichiarazione d’Indipendenza dello stato d’Israele, proclamata il 15 maggio 1948, in piena guerra sotto l’attacco di cinque stati arabi, si fonda esplicitamente sulla decisione 181 dell’Onu del 1947, che include appunto il riconoscimento della legittimità giuridica internazionale di due stati affiancati, uno ebraico e uno arabo; cioè Israele e Palestina. Ecco, esattamente 57 anni fa la guerra lampo dei Sei Giorni ci aveva liberato dall’incubo di un attacco su tutti i fronti, ma i suoi risultati coloniali e imperiali di dominio, non solo su territori ma su un altro popolo, continuano fino a oggi e diventano sempre più disastrosi per tutti noi, israeliani e palestinesi. Purtroppo, sì, la probabilità che il pubblico israeliano si svegli da solo dal suprematismo demagogico promosso da Netanyahu già da quasi un ventennio è praticamente nulla: ciò malgrado il crollo del suo carisma, date la batosta del 7 ottobre, la guerra senza senso di distruzione, l’urto con il presidente americano Biden e con gli stati arabi moderati, l’ondata antisemitica mondiale e infine l’economia in pericolo. Allora sì, dobbiamo osare e chiedere aiuto per salvare Israele da se stessa, appunto col riconoscimento internazionale della Palestina, al suo fianco.