Recentemente abbiamo assistito a una nuova ondata di mobilitazione degli studenti in tutto il mondo, o almeno nel mondo che approssimativamente chiamiamo occidentale, dall’America del Nord, Centro e Sud, all’Europa. Non so se anche in altre aree del globo. Mi sono chiesto ingenuamente, perché gli studenti occupano le loro università a favore della causa palestinese, mentre due anni fa non si sono mobilitati per l’invasione russa dell’Ucraina? Tento una risposta, sulla quale ho molti dubbi, ma voglio soprattutto invitare a riflettere e a discutere.
Anche i campus americani sono in rivolta. Quasi come sessant’anni fa. Allora la protesta era contro la leva militare e contro la guerra in Vietnam. Ora è contro Israele e il sostegno che riceve dagli Stati Uniti e dall’Occidente, pure con molti distinguo, reticenze ed esitazioni nei confronti della politica del governo di Tel Aviv. Anche da noi, in Europa, i movimenti di opposizione a quello che sta succedendo in Palestina sembrano mobilitare ampi settori della popolazione studentesca. Le scene dello sgombero delle occupazioni alla Columbia University e all’Ucla di Los Angeles, ma anche a Torino e in altri atenei, hanno fatto vedere episodi di violenza delle forze dell’ordine che a destra hanno suscitato approvazione da chi vuole law and order, a sinistra simpatia per gli studenti in agitazione, ma anche qualche dubbio.
Al di là delle polarizzazioni, bisogna cercare di capire prima di schierarsi o da una parte o dall’altra. Bisogna poi anche non perdere di vista i collegamenti tra quello che succede a Gaza e quello che è successo e succede in Ucraina. Nel mondo globale tutto è, in modi e misure diverse, interdipendente.
Prevale un’interpretazione del conflitto arabo-israeliano come conflitto neo o post-coloniale. Ad esempio, un articolo di Iain Chambers, pubblicato il 27 aprile scorso sul “Manifesto” mi ha fatto riflettere. Il noto antropologo e sociologo, grande studioso delle questioni mediterranee, dà ragione agli studenti che sostengono che la loro università debba uscire dai contratti di ricerca con le università israeliane in quanto complici di un’operazione di stampo coloniale o post-coloniale. Lasciando da parte la questione dell’auspicio che la ricerca scientifica non debba avere frontiere, ha un fondamento l’ipotesi che la formazione dello stato di Israele sia un episodio inquadrabile nell’ottica del neo-colonialismo? A me sembra che il movimento sionista sia stato il prodotto del nazionalismo degli stati europei del XIX secolo e che sia stata la Shoah a dare la spinta decisiva alla creazione dello stato d’Israele. In effetti, però, rileggendo la storia di quel territorio dal 1948 in poi, devo riconoscere che l’interpretazione in chiave neo-coloniale non è priva di qualche fondamento e che la reazione del governo di Netanyhau alla tragedia del 7 ottobre fornisce più di qualche ragione per sostenerne la plausibilità. Non è azzardato pensare che le successive ondate di coloni pensassero di portare la “civiltà” in un’area che dopo la caduta dell’impero ottomano era rimasta piuttosto marginale. Interpretare però la formazione e lo sviluppo di Israele, fino al dramma attuale, nell’ottica del neo-colonialismo occidentale, e per conseguenza poi (ma questo Chambers non lo dice) dell’imperialismo americano, mi sembra comunque troppo riduttivo.
C’è una tendenza in una parte di coloro che si considerano di sinistra di schierarsi istintivamente per coloro che appaiono gli oppressi e contro gli oppressori. Anch’io condivido questo sentimento, questo moto spontaneo dell’animo. Però poi mi chiedo se gli oppressi siano veramente le vittime e gli oppressori veramente i loro carnefici. Il dubbio affiora ed è importante perché induce a approfondire le situazioni al di là delle reazioni immediate.
I palestinesi sono vittime, su questo non c’è dubbio. Ma non solo di un governo israeliano privo di scrupoli, ma anche della strumentalizzazione da parte di Hamas. Non bisogna confondere i palestinesi con Hamas, anche se bisogna riconoscere che Hamas non è soltanto un’organizzazione terroristica, ma gode del sostegno di una parte, tendenzialmente maggioritaria, della popolazione. Chi ha finanziato e a che cosa è servita la costruzione di decine di chilometri di tunnel sotto la striscia di Gaza? Dietro Hamas c’è veramente anche l’Iran, un paese di quasi 90 milioni di abitanti, ricco di petrolio, retto da uno dei regimi più illiberali e fanatico-religiosi della storia e, probabilmente, dotato di armi nucleari? E dove si colloca l’Iran nel disordine e nelle tensioni a livello mondiale tra Russia, Cina, Usa, Brics ed Europa? Non sono un esperto di vicende mediorientali, però non si possono ignorare queste domande prima di considerare i palestinesi esclusivamente come vittime del neo-colonialismo, che si ritiene oggi rappresentato da Israele e dagli Stati Uniti, dove peraltro vive la quota più elevata di popolazione ebraica al di fuori di Israele, che sostiene Israele ma non ha nessuna propensione a trasferirvisi.
Ritengo comunque la mobilitazione degli studenti a sostegno dei palestinesi un fatto positivo se può significare l’inizio di un processo di riflessione e approfondimento e, alla fine mi auguro, di apprendimento. La questione non nasce col 7 ottobre e con la reazione del governo di Israele. La domanda da porsi è come mai in quella regione contesa, che per gli uni è una terra promessa e per gli altri una terra sottratta, si scontrano due nazionalismi allo stesso tempo simili e opposti. Come possono diventare “fratelli” due popoli che si contendono la stessa terra? Il nazionalismo israeliano ha radici nel movimento sionista, cioè nella storia europea, e la sua meta sarebbe risultata irraggiungibile senza la tragedia della Shoah. Le potenze occidentali di allora, in particolare il Regno Unito, hanno concesso che si creasse lo stato di Israele, memori della loro incapacità di affrontare il cancro antisemita diffuso un po’ ovunque e che nella Germania nazista aveva raggiunto la sua forma più estrema. La rivendicazione del diritto di occupare la terra promessa dopo duemila anni di assenza non può avere nessun fondamento giuridico e può essere giustificata solo dalle vicende di un popolo che ha attraversato tutta l’Europa in seguito a una storia ininterrotta di espulsioni, migrazioni, persecuzioni ed eccidi.
Bisogna riconoscere peraltro che il fatto di esser stati vittime di razzismo non rende immuni dal praticarlo a propria volta. Può anzi generare un apprendimento proprio per averlo sperimentato sulla propria pelle, apprendimento che poi, quando ci si trova dall’altra parte del conflitto, può scatenare azioni di inaudita violenza. I comportamenti dei coloni in Cisgiordania, dalla Guerra dei Sei Giorni fino ad oggi, tollerati se non addirittura fomentati dal governo israeliano, ne sono un esempio evidente. È quello che è successo e succede tra israeliani e palestinesi e, d’altra parte, non si può negare il diritto a rimanervi alle popolazioni che hanno abitato per secoli quelle stesse terre. La serie di conflitti armati e di atti terroristici che si sono succeduti nel tempo che ci separa dal 1948 stanno a dimostrare che il problema è insolubile, a meno che la pace non venga imposta e garantita da un accordo tra le grandi potenze a livello mondiale, accordo che -almeno per il momento- appare assai improbabile. La soluzione “due popoli due stati”, sul cui rifiuto entrambi i contendenti attualmente concordano, avrebbe avuto senso nel 1948 con il riconoscimento internazionale di entrambe e sotto una ferrea gestione internazionale, anche sul piano delle limitazioni della sovranità militare. Non è stato fatto allora, anche per l’opposizione dei paesi arabi, e adesso la soluzione appare molto difficilmente praticabile. I nazionalismi sono il prodotto di situazioni e processi storici che non possono essere superati se non nell’arco di diverse generazioni, però il processo di superamento è sicuramente già incominciato sia da parte degli israeliani che si oppongono al loro governo, sia da parte dei palestinesi che non riconoscono che il movimento di Hamas sia il migliore difensore dei loro interessi.
Avanzo l’ipotesi che la preferenza per la causa palestinese da parte dei movimenti degli studenti offra un’occasione per schierarsi contro l’Occidente e, in particolare, contro la potenza egemone dell’Occidente, gli Usa, con l’accusa di imperialismo. Se il mostro contro cui battersi è l’imperialismo non si può negare che anche quello russo è una forma di imperialismo. Tuttavia, la guerra in Ucraina non ha offerto l’occasione di battersi contro l’imperialismo. Anzi, schierarsi a favore delle vittime, in questo caso la popolazione ucraina che non vuole far parte integrante dell’impero moscovita, vuol dire schierarsi dalla parte sostenuta anche dagli Usa, più che da un’esitante Unione Europea. È legittimo schierarsi contro l’imperialismo, ma solo di quello da cui si ritiene di essere assoggettati. È vero che l’Ucraina è stata aggredita e che i russi sono gli aggressori, tuttavia molti, tra cui probabilmente anche molti giovani studenti, sposano la versione che la Russia si è sentita accerchiata dall’adesione, reale o prevedibile, dei paesi dell’Est ex-sovietici, Ucraina compresa, alla Nato. Che la Russia di Putin si sia potuta sentire minacciata dalla Nato è poco credibile. La Nato, come aveva indicato il presidente francese Macron ben prima che scoppiasse il conflitto, era diventata e sarebbe rimasta una scatola vuota se l’invasione dell’Ucraina non l’avesse rivitalizzata. Le alleanze hanno un senso se vengono percepite per difendersi da un nemico. La Russia non veniva, non veniva più, percepita come nemico. Anzi, era diventata un partner commerciale dal quale l’Europa si approvvigionava delle materie prime di cui è priva, in particolare gas e petrolio. Però, nell’interpretazione di una parte degli studenti universitari, ma anche di frange cospicue dell’opinione pubblica occidentale, Putin si sentiva minacciato dalla Nato, e quindi dagli Usa, si assisteva pertanto a una ripresa della Guerra Fredda a spese dei poveri ucraini. È vero che Putin era l’aggressore e l’Ucraina la vittima dell’aggressione, pensa molta gente, ma l’aggressore aveva comunque le sue buone ragioni.
Le differenze tra la guerra in Ucraina e la guerra in Palestina sono ovviamente molte. Molti ucraini, circa otto milioni su una popolazione di meno di quaranta, si sono rifugiati in Europa, mentre nessun palestinese è stato accolto dai paesi arabi confinanti. In Ucraina si affrontano due eserciti, mentre in Palestina un esercito combatte contro un’organizzazione terroristica che agisce in nome della difesa della popolazione locale. Nella guerra mediorientale si scontrano anche due tradizioni e due forme di fanatismo religioso che sono quasi del tutto assenti in Ucraina nonostante le diverse posizioni delle chiese ortodosse. Non bisogna inoltre trascurare il fatto che la guerra di Gaza gode di una copertura mediatica quotidiana che ha in parte non piccola distolto l’attenzione dell’opinione pubblica da quello che succede in quella striscia di terra a Nord del Mar Nero contesa tra russi e ucraini. La Russia di Putin, a parte i territori di Crimea e Donbass, intende ristabilire un dominio di tipo imperiale, mentre in Medio Oriente i due contendenti intendono cancellare il diritto all’esistenza dell’altro.
Di fronte alle due guerre, i movimenti degli studenti hanno scelto implicitamente di non stare dalla parte sostenuta dagli Usa, in ultima istanza è stata una scelta anti-americana, anche da parte degli studenti americani. Perché l’America, e l’Occidente, non piace, anche e soprattutto, agli “occidentali”, è una questione aperta da tanto tempo. In Europa l’anti-americanismo ha strane e molteplici radici. Non da ultimo, per quanto riguarda l’Italia, il fatto che, dalla fine della guerra alla “rottura” di Berlinguer, il maggior partito di opposizione fosse schierato dalla parte della Russia allora sovietica. Ragionare per analogie è sempre rischioso e l’analisi comparativa è da usare con cautela. Le differenze sono sempre moltissime e la storia non si ripete mai. Tuttavia, la domanda sul perché gli studenti si mobilitino per i palestinesi e non per gli ucraini mi sembra comunque legittima, ci richiede di riflettere non solo su quelle realtà ma anche su noi stessi, sulle nostre società. In modi diversi entrambe le guerre sono drammaticamente parte dello scenario più ampio del disordine mondiale degli ultimi trent’anni che ha visto la ricomparsa degli imperi e quindi anche dei nazionalismi. Per noi europei poi c’è una ragione di più che spiega l’assenza di mobilitazione nel caso dell’Ucraina. Israele e la Palestina vengono percepiti come più lontani, c’è di mezzo una metà del Mediterraneo, l’Ucraina è vicina: da Trieste a Kiev c’è pressappoco la stessa distanza che c’è tra Torino e Palermo, ci si può andare tranquillamente in autostop. A Occidente l’Ucraina confina con paesi che fanno tutti parte dell’Unione Europea. La Russia non viene percepita come un pericolo, fa paura, ma è una paura rimossa. Si vuole la pace perché non si vuole correre il rischio di una guerra. Ottant’anni di pace, salvo la tragedia balcanica, hanno stemperato in molti -giovani e meno giovani- le “virtù” militari. Aggiungo: per fortuna. L’America la possiamo criticare, la Russia ci fa paura. Il timore di poter essere coinvolti nel conflitto favorisce la rimozione del pericolo.
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