Alessandro Cavalli, sociologo, è docente presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli studi di Pavia. Ha coordinato, insieme ad Antonio de Lillo, le ricerche Iard sulla condizione giovanile in Italia.

E’ da poco uscito il sesto Rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, da lei curato. Che cosa emerge dalle vostre ricerche?
I giovani sono un po’ lo specchio della società. Mi spiego: gli adulti, guardando i giovani, in realtà vedono se stessi, compreso ciò che non vorrebbero vedere. Tra l’altro, i genitori dei giovani di oggi appartengono o alla coda del ‘68, o all’inizio della generazione immediatamente successiva. In questo senso io dico che sono adulti delusi, o che non hanno avuto illusioni. Allora, intanto diciamo che i giovani crescono in un ambiente in cui gli adulti sono così.
Bisogna anche considerare che i giovani non sono un gruppo sociale, sono una categoria demografica. E’ soltanto in certe circostanze storiche particolari, e abbastanza eccezionali, che i giovani, o almeno alcune frazioni di giovani, diventano protagonisti. E’ accaduto, per esempio, all’inizio del secolo scorso, con dei movimenti giovanili che hanno anticipato un poco le tendenze che si sono affermate poi nei decenni successivi. La Jugendbewegung in Germania, il movimento dei “Wandervogel”.
Anche i movimenti fascisti sono stati movimenti che hanno avuto una componente giovanile forte. E poi c’è stato il ‘68-‘70, dove c’è stato un protagonismo di movimenti fortemente giovanilisti. Però queste sono fasi un po’ eccezionali. Senz’altro questa è una fase in cui il protagonismo giovanile non c’è.
Essendo una categoria definita prevalentemente in termini demografici, è molto differenziata socialmente, perché è chiaro che essere un giovane contadino, operaio, impiegato, studente, o dei professionali o dei licei, non è la stessa cosa, cioè le differenziazioni sono fortissime, perché forse le classi sono sparite, ma la disuguaglianza è rimasta. E poi c’è la distinzione territoriale, perché essere giovani a Forlì è diverso che essere giovani a Campobasso, o in Sicilia.
Infine c’è la differenziazione di genere. In questa ricerca non l’abbiamo tematizzata molto. Si potrebbe scavare di più. Ormai è risaputo che le ragazze sono scolasticamente più brave, tutte le ricerche lo mettono in luce, salvo forse in matematica, ma in generale a scuola riescono meglio. E però sono anche più stressate. Parlo evidentemente dello stress di chi si impegna molto perché vuole raggiungere dei risultati; ecco, questa tensione verso il risultato la si vede di più nella ragazza. La spinta emancipativa, magari anche inconsapevole, la voglia di affermare se stesse, di dimostrare che si vale, oggi è una prerogativa femminile. Nei ragazzi c’è un po’ più di passività, almeno per quanto riguarda la scuola.
Questo è un fenomeno che non è stato molto studiato. La mia ipotesi è che questo dipenda dalla socializzazione familiare, nel senso che le ragazze, fin da bambine, sono più addestrate a svolgere dei compiti, e quindi ad avere dei doveri dai quali i loro fratelli sono esentati. Ora, l’idea di avere dei compiti, di doversi impegnare nella loro esecuzione è una competenza che si trasferisce facilmente nella scuola.
Fino a mezzo secolo fa le bambine non andavano a scuola, ci andavano i fratelli. E’ a cominciare dalla metà degli anni ‘60 che c’è stato un progressivo aumento della frequenza scolastica da parte delle ragazze, non più destinate a diventare esclusivamente mogli e madri. Questo è stato il grande cambiamento, in fondo, della nostra società. Oggi non c’è ragazza che non voglia avere una vita fuori dalla dimensione casalinga. Poi magari vengono ricatturate dai ruoli familiari in una fase successiva, quando si sposano, ma questo spiega anche, almeno in parte, il fatto che ci si sposi sempre più tardi: le ragazze hanno voglia di fare, almeno in una fase della vita, un’esperienza nella società, non soltanto dentro la sfera privata.
Lei è un po’ polemico rispetto alla vulgata mediatica dei giovani o “bamboccioni” o segnati da fenomeni di disagio e devianza…
E’ un discorso estremamente complesso, che contempla tanti fattori, di cui alcuni fondamentalmente strutturali. Se vogliamo partire dall’istruzione, dobbiamo allora ricordare che noi, insieme alla Germania, abbiamo dei percorsi educativi (parlo dell’istruzione superiore) particolarmente lunghi. Il fenomeno dei “fuori corso” non è infatti così diffuso in altri paesi, dov ...[continua]

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