Avete da poco concluso la terza indagine Iard sulla scuola, da cui emerge il ritratto di un corpo insegnante segnato da un’età elevata e da una larghissima componente femminile, peraltro in crescita…
La causa dell’età elevata è molto semplice. Negli anni ’70-’80 c’è stata un’immissione di insegnanti molto consistente, anche al di là dei fabbisogni della scuola. Mi sembra onesto riconoscerlo: c’è stato un rigonfiamento della popolazione di insegnanti, dovuto al fatto che si voleva in qualche modo far fronte a un problema annoso della storia italiana, che è l’iperproduzione di laureati in certi settori, e quindi si è usata la scuola per assorbirli perché i laureati a spasso sono considerati socialmente pericolosi. Questo meccanismo però non poteva funzionare a lungo e a un certo punto si è bloccato il turn over. Sospendendo il ricambio nel corpo insegnante, questo inevitabilmente invecchia, ed è ciò che è successo da noi. Il nostro paese vanta oggi il corpo insegnante più vecchio d’Europa.
Per quanto riguarda la femminilizzazione, si tratta di un problema non solo italiano. L’insegnamento è una professione poco attraente per la popolazione maschile, anche perché dà scarse opportunità di carriera e retribuzioni che sono al gradino più basso della popolazione dei laureati.
Infatti gli insegnanti maschi, dalle nostre rilevazioni, scelgono questa professione o perché c’è una forte vocazione, oppure perché non sono riusciti a fare niente di meglio e quindi si ritengono dei falliti. Non c’è bisogno di dire che sono due categorie completamente diverse.
Anche tra le donne c’è sempre chi sceglie di insegnare per passione, ma rimane una quota che opta per l’insegnamento perché la considera una professione compatibile con il secondo lavoro domestico. In realtà questa è una valutazione che vale solo nel caso in cui si prenda la professione poco seriamente. Questo comunque è un dato che bisogna riconoscere e di cui tener conto.
Ora, questa accentuata femminilizzazione può avere delle controindicazioni dal punto di vista educativo, perché mentre a livello di scuola materna e di scuola primaria una certa continuità fra la figura materna e la figura dell’insegnante probabilmente ha un senso, nella fase preadolescenziale e adolescenziale la scarsità, se non addirittura l’assenza, di figure maschili al di fuori della famiglia può non essere auspicabile. Sia per i maschietti, che non trovano figure adulte con le quali identificarsi al di fuori del repertorio dei media o della famiglia. Sia per le ragazzine, che in qualche modo hanno bisogno di ridimensionare l’identificazione con la madre. Nella fase delle scuole secondarie di primo e secondo grado, un’eccessiva femminilizzazione può dunque avere degli effetti non necessariamente desiderabili.
Dove invece l’aumento della presenza femminile sta producendo degli effetti positivi è a livello dirigenziale nella scuola. Oggi sempre più donne sono in posizione di comando e scelgono di diventare dirigenti non come molti vecchi presidi (perché non ne potevano più di fare gli insegnanti), ma perché hanno delle effettive capacità di gestire un’organizzazione complessa come la scuola.
In contrasto col quadro dipinto dai media (studenti demotivati, conflitti coi genitori, strutture carenti, retribuzioni basse), dalla vostra indagine viene fuori l’inattesa immagine di un corpo professionale comunque soddisfatto del proprio lavoro, soprattutto sul piano del rapporto con gli studenti.
E’ così. Gli insegnanti che abbiamo intervistato si lamentano e hanno tante ragioni per farlo, però sono pochissimi quelli che, potendo tornare indietro, farebbero un altro mestiere, perché tutto sommato ottengono delle gratificazioni. Facendo questo mestiere l’autoimmagine non viene demolita, perché accanto agli insuccessi ci sono anche i successi: si vedono crescere i ragazzi, e questa per un insegnante è una soddisfazione straordinaria, una cosa importantissima per motivare alla prestazione professionale.
Dall’altro versante però il bravo insegnante deve essere ...[continua]
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