Gerusalemme è per i mussulmani la terza città santa dopo Mecca e Medina e tutta la Palestina è parte del Wakf, cioè proprietà sacra per l’eternità, tanto più dopo le crociate.
Come si può dunque spiegare lo scontro attuale tra Israele e l’Onu e le sue agenzie, sempre più sentito anche sul piano diplomatico, e ultimamente anche sul piano militare, con urti diretti con le unità dell’Unifil nel sud del Libano e con l’Unrwa nella Striscia di Gaza? A lungo le azioni di Israele si sono potute in qualche modo spiegare come legittima difesa contro il rifiuto dei paesi arabi all’esistenza stessa dello Stato degli ebrei e contro il terrorismo, sovvenzionato e protetto in tutto il Medio Oriente.
Le numerose decisioni anti-israeliane dell’Onu e delle sue agenzie, tra cui l’Unesco e il Comitato internazionale per i diritti dell’uomo, adottate con frequenza e proporzione assurde rispetto a crisi umanitarie ubicate altrove, inclusi paesi arabi come la Siria, potevano essere attribuite al predominio dei paesi arabi e musulmani e di coalizioni antioccidentali nei diversi organi internazionali, escluso il Consiglio di Sicurezza (grazie al veto degli Usa).
Invece, i trattati di pace con l’Egitto e la Giordania, il processo di Oslo coi palestinesi (pur bloccato dal terrore e dai coloni), e la proposta saudita del 2002, adottata dalla Lega Araba, per il riconoscimento reciproco tra Israele e la Palestina, base di accordi di pace tra tutti gli stati del Medio Oriente, hanno messo in luce come le azioni d’Israele in Cisgiordania, da una parte, e quelle di Hamas, sostenuto dall’Iran e da Hezbollah dall’altra, impediscano anche solo di iniziare delle trattative per implementare programmi di pacificazione e di risoluzione del conflitto arabo-ebraico. L’Onu e le sue agenzie, persino la Croce Rossa, si trovano in mezzo al fuoco, letteralmente.
La Croce Rossa niente sa dei 101 ostaggi israeliani nascosti da Hamas nelle gallerie scavate sotto Gaza (perché si tratta di un’organizzazione terrorista e non di uno stato di diritto). Al contempo ci si aspetta che Israele osservi le regole internazionali sui terroristi catturati a tre giorni dal vero e proprio pogrom del 7 ottobre 2023.
L’Unifil, i “caschi blu”, corpo dell’Onu nel sud del Libano, a cui partecipano anche unità italiane, avrebbe dovuto implementare la risoluzione 1701 del consiglio di sicurezza dell’Onu del 2006, volta ad aiutare l’esercito libanese a prendere il controllo del sud del Libano, con il ritiro d’Israele, e a impedire azioni, fortificazioni e introduzioni di materiale militare e di milizie di Hezbollah (che del resto secondo la precedente risoluzione 1559 avrebbe dovuto essere disarmato completamente). Di cosa abbia fatto l’Unifil da allora, ne hanno avuto prova durante tutto quest’anno le decine di migliaia di abitanti dei villaggi e cittadine al nord d’Israele, che sono state sfollate a causa del tiro continuo sia diretto sia parabolico dalla frontiera, e ancora di più adesso che si scoprono le fortificazioni di Hezbollah. Certo ciò non giustifica gli spari diretti contro unità dell’Unifil da parte dell’esercito israeliano; ques'ultimo però sostiene che le unità del Hezbollah agiscono all’ombra o in vicinanza delle postazioni Unifil, usate come scudo di protezione, anche proprio per coinvolgerle.
L’Unrwa, l’agenzia speciale per i profughi palestinesi (autonoma e separata dall’Unhrc, quella generale per i profughi di tutto il mondo), invece di promuovere la loro ricollocazione nei paesi in cui si sono rifugiati o in altri disposti ad accoglierli, li tiene per generazioni nei campi, coltivando l’identità, la coscienza e l’odio, facendo il gioco degli stati arabi che li possono usare come carta di contrattazione contro Israele.
È vero che la Nakba, la tragedia palestinese del 1948, è l’unico caso di esodo (costretto dalle forze israeliane o parzialmente incoraggiato dagli arabi) di buona parte di una popolazione che formava la maggioranza del territorio, invece di minora ...[continua]
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