In una lettera che Karl Polanyi (1886-1964), grande storico socialista dell’economia, nel 1941 scrisse alla figlia, si legge che la sua opera Le origini del nostro tempo: la grande trasformazione riguardava “il nuovo concetto di libertà, la riforma della consapevolezza umana”. Dopo la catastrofe dei regimi fascisti che avevano portato la guerra, la prospettiva per cui impegnarsi in futuro era secondo Polanyi un nuovo assetto sociale che rispecchiasse una nuova idea di libertà. Del resto, già in una lettera del 1925, Polanyi si chiedeva:
Come possiamo essere liberi nonostante la società sia un dato di fatto? Ed essere liberi non solo nella nostra immaginazione: non astraendoci, dunque, dalla società, non negando che la nostra vita è intrecciata con quella di tutti gli altri, e che verso di loro abbiamo un impegno. Saremmo allora realmente liberi, cercando di rendere la società chiaramente visibile, come lo è la vita intima di una famiglia, in modo da realizzare uno stato di cose in cui io abbia compiuto il mio dovere verso tutti gli esseri umani ed essere così nuovamente libero, con dignità e in buona coscienza.
Una filosofia sociale non può dimenticare per via di astrazioni e principi generali la socialità concreta. L’esperienza traumatica della guerra 1914-18 ispira a Polanyi una nuova attenzione nei confronti della socialità, in contrasto con la politica bolscevica orientata al controllo dall’alto dei legami sociali, centralizzando l’economia invece che favorire un più libero sviluppo della vita sociale.
Fin da quando, all’inizio degli anni Dieci, aveva partecipato al Circolo Galilei con i suoi amici ungheresi Lukàcs, Mannheim, il musicista Béla Bartòk, lo psicanalista Sàndor Ferenczi, il filosofo del diritto Gyula Pikler e il poeta Endre Ady, l’orientamento politico, teorico e morale di Polanyi era criticamente scettico nei confronti della “scientificità” nello studio sociale e nella prassi politica. In questo senso non poteva essere accettata né una sociologia positivistica né il marxismo della Seconda Internazionale, e neppure la politica comunista della Russia rivoluzionaria. Senza l’adozione di un’epistemologia scetticamente empiristica non si poteva contrastare quel dogmatismo e quella “metafisica” che inficiavano la prassi bolscevica di Lenin. La visione di Polanyi rifiuta tanto le filosofie della storia che i giudizi di valore aprioristici e la sociologia intesa come una “scienza naturale”. La società è fatta piuttosto di una socialità liberamente vissuta.
Secondo Polanyi “la capacità che le organizzazioni hanno di assolvere la loro funzione dipende dalla quantità di democrazia viva che si realizza quotidianamente”. Per interessare l’intera società, una tale “libertà sociale” deve essere vivamente e quotidianamente praticata nelle più varie organizzazioni: da una cooperativa a un sindacato, a un partito politico. Perché questo avvenga, la libertà non deve essere un’idea, un principio, una convinzione immaginaria, un astratto presupposto individuale. Deve diventare libertà sociale che si realizzi in una socialità morale spontanea. Nella visione di Polanyi la società va sempre riscoperta come una socialità di legami reali. Scrive nel 1947: “Ora ci troviamo di nuovo di fronte al problema di organizzare la vita umana nella società delle macchine”.
Le caratteristiche di un pensiero come quello di Polanyi sono così delineate dai curatori del volume Una società umana, una umanità sociale. Scritti 1918-1963 (Jaca Book, 2015), Michele Cangiani e Claus Thomasberger:
Karl Polanyi è stato variamente considerato storico economico, antropologo economico, sociolog ...[continua]
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