Parliamo stasera del libro Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa), uscito con Mondadori. Abbiamo con noi le autrici Olivia Guaraldo e Adriana Cavarero, e Adriano Sofri.
Non è facile per un maschio condurre una conversazione sui femminismi, soprattutto con due studiose, intellettuali e femministe del loro rango. Per me personalmente è stato molto importante il libro sulla democrazia sorgiva, su Hannah Arendt, di Adriana Cavarero, ma anche tanti altri.
Vorrei cominciare con una domanda generale, elencando quelli che per me, che non sono una donna e non sono una femminista, sono i temi di questo libro; io ne ho individuati tre o quattro. La prima domanda riguarda quella che possiamo chiamare la dialettica della modernità tra la promessa di inclusione e la prassi di esclusione, studiata appunto da Hannah Arendt, Zygmunt Bauman, e altri. Il secondo nucleo penso sia semplicemente -per modo di dire- una storia del pensiero femminista a partire dalla rivoluzione francese, e quindi qualcosa che ha a che fare con la modernità, e che per un ignorante come me sistematizza tante cose. E poi c’è la parte sul femminismo, i femminismi rispetto a gender, lgbtqia eccetera, dove c’è anche la questione della gestazione per altri; il tutto poi innervato dalla riflessione sulla lingua che parliamo, sui termini che usiamo.
Vorrei cominciare a partire dalla mia soggettività di uomo ebreo che trova un po’ di analogie; analogie, non somiglianze, fra la situazione degli ebrei (ebrei come soggetto paradigmatico nella modernità) e quella delle donne. Anche qui la grande promessa è quella dell’inclusione. Il prezzo dell’inclusione è ovviamente l’assimilazione, nel caso degli ebrei; nel caso delle donne, se ho capito, è essere come i maschi. Anche qui, di nuovo, delle analogie: “Sii ebreo a casa, e tedesco, italiano, francese, qualunque cosa, fuori”, oppure: “Beh, è un vero polacco nonostante sia ebreo”. Questa frase l’ho sentita tante volte nella mia vita.
A questa promessa, raccontata anche da Hannah Arendt, nel caso di Proust, che può essere in qualunque momento estromesso dal salotto buono, corrisponde l’esclusione. Tu puoi essere come gli altri, ma sei escluso: nel caso degli ebrei, fino ai campi di sterminio, la forma più radicale, più nichilista dell’esclusione. Ovviamente, questa dinamica comporta anche una spinta verso la soggettività, e di nuovo trovo delle analogie. Anche sulla soggettività ci si litiga: la soggettività ebraica può arrivare al fondamentalismo di destra oppure, dall’altra parte a una percezione dell’ebraismo come elemento che aiuta a pensare in maniera sovversiva, a sovvertire il discorso dominante. Ecco, tutto qui. Non so se ho detto una sciocchezza...
Adriana Cavarero. Allora, le analogie ci sono, soprattutto se si guarda al rapporto fra esclusione, inclusione, assimilazione. C’è però anche una differenza fondamentale: l’essere ebreo non è un dato biologico, l’essere donna oppure uomo è un dato biologico. Quindi qui abbiamo a che fare con un dato molto pesante, un dato non costruito, non fabbricato. E questo dato biologico della differenza sessuale è così visibile, così importante culturalmente, che tutte le culture (per lo meno quelle che conosciamo in Occidente) danno un significato alla differenza sessuale, all’essere donna invece che uomo. Il significato che viene dato tradizionalmente a questo fatto reale può essere riassunto in quello che viene chiamato “patriarcato”. Che -avverto tanti miei amici sapienti, per esempio l’amico Massimo Cacciari- non è il nome di un dato periodo in cui comandavano i padri, ma è un sistema di potere, è una categoria sociologica e antropologica; è un sistema di potere nel quale i maschi sono privilegiati e le donne sono in condizioni inferiori, sono soggiogate.
Cosa voglio dire? Che il fatto, il dato della differenza sessuale, storicamente è stato tradotto dalle varie culture in un sistema nel quale essere maschio aveva determinati privilegi; a essere femmina, questi privilegi non c’erano. L’ha ricordato Nadia Filippini nel suo intervento, parlando della sfera domestica, della riproduzione, della cura dei corpi. Questo significa, e qui vengo alla tua domanda, che nella storia dell’Occidente (l’unica che conosco un po’) il dato della differenza sessuale, questa specificità biologica del femminile e del maschile è stata tradotta in una esclusione delle donne dal luogo dei poteri e dei saperi. Quindi siamo nell’ambito di una esclusione.
Le donne fin dall’antichità, ma sicuramente a partire dalla Rivoluzione francese, da Mary Wollstonecraft, Olympe De Gouges, dall’emergere delle varie correnti del femminismo, prima ondata, seconda ondata; ecco, le donne hanno combattuto per uscire da questo sistema patriarcale dell’esclusione. Una tappa fondamentale è stata proprio la modernità e con la modernità intendo dire l’invenzione della categoria di eguaglianza, che non è mai esistita storicamente: nella storia del pensiero politico non c’è mai stata la categoria di eguaglianza.
Anzi, Aristotele diceva esplicitamente che non si dà l’eguaglianza in natura, che ci sono differenti gruppi e differenti poteri. La modernità ha inventato la formula “Liberté, égalité, fraternité”, soprattutto la categoria di eguaglianza che si esprime bene nella famosa frase “tutti gli uomini nascono uguali”. Qui facciamo un po’ di filologia. Quando si dice: “È a tutti evidente che tutti gli uomini nascono uguali”, tutti gli uomini a prima vista, per il nostro orecchio, che è un orecchio del 2024, significa tutti gli esseri umani, vero? Perché se si dice “uomini” si intende il genere umano. Questo però è solo un lato della medaglia, perché l’altro lato, anzi l’oro con cui è coniata la medaglia, con l’espressione “tutti gli uomini nascono uguali” intende tutti i maschi nascono uguali.
Allora, prima della modernità c’era un sistema che possiamo definire Ancien régime, io preferisco “società per ceti”, nel quale le differenze, di ceto, di ricchezza, di nascita, si traducevano in un determinato ruolo nella piramide sociale. I moderni straordinariamente dicono: questo non conta, non conta se sei contadino, conte o re, tutti gli uomini nascono uguali. Pertanto assistiamo a una neutralizzazione delle differenze. Con una grande amnesia, un grande rimosso: non viene vista la differenza sessuale, per cui -ripeto- tutti gli uomini nascono uguali significa tutti i maschi nascono uguali.
E le donne? Le donne sono invisibili. Perché siccome sulla scena dei poteri e dei saperi non ci sono mai state, c’è come un’amnesia, non vengono viste.
Così comincia la battaglia per l’uguaglianza, le lotte per l’emancipazione, che sono molto importanti e di cui nel libro abbiamo descritto la storia. Qual è il risultato? Il risultato è quello in cui viviamo in questo momento. Il risultato è che l’uguaglianza viene estesa alle donne, ma secondo un paradigma che è legato all’ordine simbolico patriarcale. Cioè tu, benché donna, sei uguale a un uomo e quindi in qualsiasi luogo a cui ti diamo accesso, negli spazi dei poteri, dei saperi, devi comportarti come un uomo.
Qui in effetti c’è un’analogia nel fatto che l’inclusione implica l’assimilazione. Per cui la differenza sessuale, che prima politicamente non veniva vista, è di nuovo esclusa, nel senso che deve diventare invisibile nei luoghi dei saperi e dei poteri. Una grande manager deve comportarsi come “un” grande manager, deve avere i tempi del grande manager, gli atteggiamenti del grande manager. Ora, non è esattamente così, ma non abbiamo il tempo di approfondire; segnalo che un modello relazionale femminile, ma più che altro femminista, è stato considerato dal management e dalle politiche di marketing come utile ad aumentare i profitti. Ma di fatto con l’inclusione si chiede l’assimilazione.
Una delle caratteristiche del femminismo della differenza sessuale, corrente di cui Olivia e io facciamo parte, è la critica dell’assimilazione. Qui però voglio essere chiara. Tutti i vantaggi che mi vengono dall’assimilazione e che hanno fatto sì che io fossi diversissima da mia nonna, che non poteva andare a scuola… tutti i vantaggi che vengono dall’assimilazione io me li prendo e guai a chi me li tocca! L’uguaglianza, io la voglio e guai a chi me la tocca, sul piano dei diritti, sul piano formale, ma anche sul piano degli interventi per renderla effettiva. Dopodiché il femminismo della differenza è andato oltre sviluppando una positività della differenza sessuale femminile.
Noi abbiamo combattuto per avere una nostra soggettività, un modo di essere donna che non fosse stereotipico e questo, notate bene, non consiste in un risultato, bensì in un processo. Non è che noi abbiamo elaborato un valore positivo dell’essere donna, dell’essere libera di fare scelte, di enfatizzare la nostra specificità come peculiare, creativa, generativa che consegniamo alle giovani che quindi ci devono ringraziare. Non è questo. La creazione della soggettività femminile come non includibile nello stereotipo maschile dell’eguaglianza è un continuo processo, quindi è un continuo passare il testimone.
In più, non siamo state un gruppo omogeneo che andava avanti come un esercito nel dire: la positività femminile è questa. Il movimento femminista è articolato, ci sono molte correnti, ci sono scambi e vissuti diversi, a volte siamo state concordi, alleate, a volte no. È un processo complesso che bisogna tenere aperto. Per venire alla domanda: è una continua tensione fra l’affermazione libera della specificità femminile, della creatività femminile e lo sfruttare, il mettere a frutto ciò che ci è venuto dalle politiche dell’emancipazione. Cioè da questo meccanismo che cerca continuamente di includerci e di assimilarci, e che, se riuscisse totalmente, saremmo tutte donne che imitano gli uomini.
Io tengo alla mia specificità, ho insegnato cinquant’anni sottolineando questa specificità, ciò che è prezioso della differenza, ma certo l’ho fatto sfruttando tatticamente anche tutti i vantaggi che mi venivano dal meccanismo di uguaglianza.
Olivia Guaraldo. Rispondo a Wlodek ricordando una frase di Hannah Arendt che noi citiamo nel libro. Gershom Scholem scrisse ad Arendt una lettera all’indomani dell’uscita de La banalità del male in cui la criticava per non avere amore per il popolo ebraico.
In quell’occasione lei rispose: “Io mi sono sempre considerata ebrea”, come a dire “essere ebrea per me è qualcosa di dato e non fatto”, di dato e non fatto. Noi abbiamo utilizzato questa espressione per provare a spiegare quest’idea complicata del fatto che essere donna è un dato, un datum. E quindi come negozi questo datum in una società, come lo negozi storicamente, culturalmente? E come non è possibile negarlo. Questo era il nostro punto di partenza. Ed è il punto di partenza anche di chi, come Olympe de Gouges o Mary Wollstonecraft, ha contestato la grande rivoluzione illuminista delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino quando dicevano:  “Voi dite ‘uomini’ e non ci includete, ma dov’è allora quella grande promessa illuminista alla quale noi stesse credevamo?”.
Quello che sottolineiamo nel libro rispetto alla questione dell’inclusione o esclusione è che proprio dall’impronta moderna dei diritti emerge un costante tentativo di assimilazione delle donne e quindi di sparizione di quel datum, perché il modello su cui è pensata l’universalità è quello dell’individuo maschile e quindi le donne sono sempre state a rischio di scomparire con le loro esistenze, con il loro corpo, con la loro differenza.
Questo rischio di sparizione, che è implicito nell’assimilazione, è evocato anche dal ridurre le donne a minoranza, dall’assimilare le lotte femministe alle lotte delle minoranze sessuali. C’è di nuovo il rischio di una sparizione.
Adriano Sofri. Vorrei dire poche cose per acchiappare qualcuna delle novità presentate da questo libro, per me che sono rimasto in grande ritardo.
Voi sapete che c’è un tentativo di aggregare una vera internazionale del cosiddetto resto del mondo, “the Rest vs the West”; il resto del mondo il cui cuore, il cui nucleo è il ripudio della frociaggine, della indistinzione fra uomo e donna e la glorificazione della famiglia tradizionale. Putin è il servizio d’ordine di questa internazionale, non è l’intellighenzia, è l’avanguardia militare.
In Italia la discussione pubblica, che può sembrare semplicemente un pettegolezzo, una distrazione, ma ha invece una formidabile coincidenza con questi temi, si svolge attraverso la “frociaggine” e i “sicari” evocati dal Papa, o la discussione su Giuli, Spano... Adesso tutti, di destra o di sinistra, se la cavano dicendo: “Da quanto tempo non sentivamo questa parola”. Non è vero, si sentono tutte; “frocio” si sente ancora moltissimo, quando si è sicuri di non essere ascoltati, ogni tanto poi a qualcuno scappa mentre viene registrato. Leggo oggi in un ottimo servizio sulla campagna elettorale presidenziale americana, che oltre un terzo dei messaggi, delle comunicazioni dello staff di Donald Trump riguardano l’accusa alla sua rivale di voler annullare la distinzione fra uomo e donna, di voler introdurre in tutti i carceri femminili i maschi transgender, di voler introdurre in tutte le attività sportive i maschi dissimulati; discussione di cui siamo memori perché avvenuta poco tempo fa rispetto alle Olimpiadi di Parigi.
Non so se posso parlare a nome anche di altri (ci piace pensare che siamo insostituibili e ciascuno fatto a suo modo, ma noi maschi ci assomigliamo molto), comunque, nel 1975, dopo essere stato molto infastidito dal ceffone che avevamo preso dalle donne, una volta riavutici, la reazione di uno come me è stata di pensare che, di tutte le lezioni che avevamo preso nella vita,  quella che c’era capitata era la più fruttuosa.
Personalmente ho proprio pensato, sono banale per ragioni di tempo: “Guarda, prima la sapevo più lunga delle donne, adesso la so infinitamente più lunga, perché so anche questa; d’ora in poi la userò” e non ho mai smesso di usarla quotidianamente. Non ho adottato personalmente lo schwa perché ho 82 anni e non vale la pena per questo periodo così breve, però apprezzo che qualcuno faccia qualunque tentativo in questo campo. Ma in genere io scrivo sempre gli opossum e le opossume.
Bene, in questo libro, avendo perduto una quantità di tappe intermedie, perché a un certo punto uno nella vita dice “non ce la posso fare a tenere dietro”, oggi mi ritrovo che le donne vengono messe in discussione a partire dal nome di donna, dalla parola donna.
Ora la vera scoperta che io feci allora e su cui contavo di campare ancora per tutto il resto della mia vita era che Karl Marx, verso il quale continuo ad avere una grande ammirazione e un grandissimo affetto, aveva fatto quella cosa che voi chiamereste una “svista”, che Olimpia de Gouges avrebbe chiamato un “lapsus”, e cioè che alla fine di quel testo meraviglioso che era Il manifesto del Partito Comunista aveva scritto “proletari di tutto il mondo unitevi” e aveva spiegato che i proletari non avevano da perdere che le loro catene.
Nel 1975 (prima di allora l’avevo un po’ intuito o sospettato) ho capito che Marx aveva fatto un errore gravissimo, non aveva nemmeno letto Olimpia de Gouges, e cioè non aveva capito che i proletari hanno da perdere le loro donne, e le loro donne sono il patrimonio più importante che l’umanità abbia mai costruito per sé.
Tutte le guerre che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi, a volte camuffate, a volte manifestamente, in Afghanistan e altrove, con le yazide rapite come nel ratto delle Sabine (una ragazza yazida è stata liberata a Gaza, dopo dieci anni di schiavitù sessuale), e soprattutto l’Iran, rendono palese questa cruciale posta del conflitto mondiale in corso.
Io arrivo a dire -non la scambiate per una battuta o per un gusto del paradosso- che c’è stata una sola vera dittatura del proletariato nella storia, ed è la dittatura dei proletari sulle loro donne!
Lì non c’è stata discussione e al giorno d’oggi non si tratta semplicemente di prendere atto che dura ancora in alcune parti del mondo. Si tratta di prendere atto che in tutti i posti del mondo tutti gli uomini hanno capito che stanno perdendo le donne, perché in una parte del mondo le hanno perdute, e tutti quanti lo vedono... anche i pastori erranti dell’Asia hanno un televisorino nella loro tenda, e vedono che cosa combinano le donne al centro di New York. Dunque combattono una guerra che non è di conquista, come le precedenti, ma è di “riconquista” delle loro donne: riportare in galera quelle che sono evase.
Il punto più istruttivo, più rivelatore è l’Afghanistan. Sono evase, poi sono state ricatturate, poi sono rievase, adesso vengono ricatturate e castigate e così via.
Quando dunque scopro che si mette in discussione l’esistenza delle donne e l’impiego legittimo della parola, del nome di donna, mi crolla tutto questo patrimonio.
Naturalmente capisco bene quanto preziose siano le rivendicazioni di tutti questi movimenti in cui quel “più” finale significa che non avrà mai fine; in cui come qualcuno ha ovviamente osservato quel “più” può voler dire semplicemente che esistono altrettante sessualità quanti sono gli individui umani.
Solo una cosa ancora. Nel libro Cavarero e Guaraldo reagiscono a questo tentativo di liquidazione delle donne, poi siccome sono molto diplomatiche, cercano anche di recuperare Judith Butler, attribuendo queste cose a un suo primo periodo, di cui si sarebbe in parte, non dico pentita, ma avrebbe corretto, eccetera, eccetera. Accanto a una reazione a questa liquidazione del nome di donna c’è al tempo stesso una rivendicazione del buon uso della parola “vita”, che non va lasciata, non va regalata ai fascisti. Sappiamo che Verona è la capitale dei Pro Vita. A me piacciono molto le coincidenze delle parole. Trovo dunque bellissimo che abbiano radunato queste due parole donna e vita, manca solo la terza del trinomio per cui si muovono e si fanno ammazzare le ragazze iraniane: “Donna, vita, libertà!”
Goldkorn. Continuo un pensiero che ha cominciato a esprimere Adriano. Due cose mi hanno colpito. Nel libro ricordate Hannah Arendt quando parla del fatto che la metafisica ha sempre considerato la morte e non la nascita. Quindi la metafisica non si sarebbe occupata della vita, forse perché la vita è donna. L’altra domanda è posta alle filosofe che siete.
Negli ultimi decenni abbiamo decostruito le categorizzazioni, le classificazioni, abbiamo preso in giro Humboldt... anche la rivolta contro la tassonomia (sono veramente un dilettante, quindi posso dire una bestialità) era portata avanti in qualche modo in nome di Kant, per il quale l’umanità è una e indivisibile. Adriano ricordava il proletariato che, liberandosi, avrebbe emancipato l’umanità intera. Chiedo: come siamo passati da quella cosa ipergenerosa a una parcellizzazione, frammentazione per cui alla fine veramente ognuno e ognuna di noi è un’isola? Come siamo arrivati qui?
Cavarero. Descriverlo nei dettagli filosofici sarebbe troppo lungo. Quel che è certo è che, nel secondo Novecento, con segni già nel primo, è entrata nella storia della filosofia, nella cultura in generale, la decostruzione, detta anche “postmoderno”. Butler è figlia di questa cultura, mentre io sono figlia della cultura classica.
Che cosa vuole il postmoderno? Il postmoderno spinge vero la distruzione e contestazione del sistema, quindi il sistema capitalistico, ma anche quello culturale, il sistema di classificazione tassonomica, il sistema dei poteri e dei saperi. Questa spinta alla distruzione c’è sempre stata nella storia. Se voi ricordate la storia della filosofia che avete imparato sui manuali a scuola, c’era Parmenide che diceva una cosa, poi arrivava Eraclito e diceva: ah, la distruggo, poi arrivava quell’altro... Invece il postmoderno punta a una distruzione radicale del sistema, e mentre prima di questo grande tentativo di distruzione, contava tutto ciò che è stabile, l’unità della nazione, l’unità del soggetto, Cartesio, “Cogito ergo sum”. Ecco, mentre prima contava tutto ciò che è saldo e dà sicurezza, il postmoderno mira alla frammentazione, alla fluidificazione di tutto questo; per dirla con il linguaggio di Platone che a me sta molto al cuore, mentre prima eravamo nella filosofia dell’uno, qui siamo nella filosofia dei molti senza l’uno.
Quello che viene messo in campo è il valore liberatorio di tutto ciò che è non fermo, ma fluido, frammentato, scheggia vorticante, di ciò che sparisce o cambia in continuazione. Qual è il problema? Non possiamo ora fare la storia della filosofia di tutto il Novecento, ma vi pongo un problema che mi sta a cuore. Come impostiamo l’etica in questo ambito di mobilità perpetua e frammentazione? Come ci può essere responsabilità se non c’è soggetto, se non c’è fermezza, se tutte le relazioni sono vorticanti, se siamo nel continuo turbinio delle soggettività?
La conseguenza, per quanto riguarda il femminismo, o perlomeno il femminismo della differenza in cui io mi riconosco, è che l’elaborazione, le pratiche, le teorie sono legate al dato materiale che i sessi sono prevalentemente due (che ci siano gli intersex lo sapeva già Platone), che la natura, la riproduzione funziona sui due sessi e che tutta la storia umana funziona sulla base di una visione gerarchica in cui il sesso maschile è superiore, il sesso femminile è inferiore. Quindi noi abbiamo a che fare non solo col dato biologico che è fermo e inamovibile, ma anche con tutta questa storia della cultura e del patriarcato, del sistema di potere.
Oggi, nell’ambito di posizioni ritenute d’avanguardia, succede che, invece di partire dal fatto che si nasce donne o uomini, che i sessi sono prevalentemente due, che gli stereotipi di genere dipingono  la virilità o la femminilità in un determinato modo, si parte dall’elemento antisistemico e ribellistico che invece sostiene che i sessi non sono due e non sono neanche molti, sono infiniti! Perché ciascuno, attraverso un atto di self-identity, si riconosce nel sesso percepito. Ma riconoscersi nel sesso percepito non riguarda soltanto la transizione da un sesso all’altro (che ragiona ancora con il due), ma le infinite possibilità di infinite transizioni, tant’è che la formula lgbtqia+ elenca le infinite fluidità delle identità sessuali.
Come conseguenza abbiamo l’attacco al linguaggio. Ora, se voi continuate, come ha imparato Sofri da giovane, a dire “cari cittadini, care cittadine”, “cari ascoltatori, care ascoltatrici”, continuate a ragionare sul sistema binario, ma niente è peggio del sistema binario per questa prospettiva postmoderna. Usare lo schwa vuol dire che si elimina maschile e femminile, che si tronca la finale della parola, per cui non posso dire cittadini, cittadine, ma devo dire cittadin, oppure devo dire cittadinu, e u sta per schwa.
Allora, quando vengono sollecitate, queste persone che sostengono la galassia, l’ideologia queer, la teoria queer, rispondono: siamo contro il binarismo. Ora, io appartengo a una generazione, e credo anche Adriano e Wlodek, in cui si era sempre contro il capitalismo, contro l’imperialismo. Adesso il linguaggio è cambiato, quello che combattono è il binarismo, che è considerato il massimo dei mali.
Ora, io non mi stupisco che le giovani generazioni siano attratte da questo. Perché anch’io sono stata una giovane generazione e alla mia epoca tutto ciò che era ribelle, che rompeva il sistema, che andava contro, che mi dava un orizzonte di cambiamento, di ribaltamento mi piaceva. E qui sta il problema.
Quando noi femministe cerchiamo di resistere dicendo: “la parola donna ha un significato”, “solo il corpo femminile genera”; quando combattiamo contro l’uso della schwa, la celebrazione della fluidità, l’attacco al binarismo, non stiamo semplicemente facendo un’operazione intellettuale. Perché a livello reale, la violenza è contro le donne. I violentatori sanno benissimo quali corpi stanno violando; sappiamo quali corpi si stanno sfruttando.
Nella maternità surrogata non c’è né fluidità né identità che si frammentano. Lì c’è un binarismo nudo e crudo perché sono gli uteri femminili che generano, custodiscono l’embrione e partoriscono!
Questa lotta astratta e metafisica in nome del ribellismo, contro il binarismo si scontra poi con la realtà. Il binarismo, l’esistenza di un sesso femminile che genera, è reale, è un dato, non è una costruzione di discorso e lo sa bene il mercato della procreazione!
Guaraldo. Riprenderei quello che diceva Adriano, cioè il fatto che l’unica dittatura del proletariato sarebbe stata quella sulle donne. La questione per me politicamente interessante è che le lotte, le proteste contro queste dittature ancora in corso sembrano non interessare o interessare poco i movimenti e i soggetti di quel ribellismo di cui parlava Adriana.
È come se la questione della libertà delle donne fosse una cosa che non interessa più nessuno, una cosa vecchia, passata. Ai nostri studenti non interessa molto la libertà delle donne in Occidente. Non è più di moda. Ma quello che più mi sorprende è questo effetto boomerang, per cui non interessa neanche la questione della libertà delle donne fuori dall’Occidente. Non è tema di soggettivazioni politiche di movimento. A mio avviso questo è molto grave. Ho conosciuto donne afgane, iraniane, ucraine, israeliane, palestinesi. La domanda a cui noi cerchiamo di rispondere -una domanda a cui forse ho risposto in un’intervista uscita sulla rivista “una città” è: come mai è diventato più attraente occuparsi della fluidità di genere o della eteronormatività anziché di questioni che riguardano proprio la schietta e basilare libertà delle donne?
Come dice Adriana c’è la questione del fatto che si è passati dalla rivendicazione femminista delle libertà, alla rivendicazione della libertà o delle soggettività dei molti, cioè si è passati dall’uno ai molti tralasciando invece il due, che è la questione su cui il pensiero della differenza sessuale insiste, cioè che l’umanità si spartisce prevalentemente in maschile e femminile.
Mi pare interessante interrogarci tutti su come mai la questione della oppressione, come si diceva una volta, delle donne non sia più un tema che attrae. Non è più un tema che interessa politicamente chi è politicamente impegnato. Fino ad arrivare al punto -ma qui si apre un’altra tematica introdotta ieri da Cristina Gramolini- che è diventato un tema di sinistra la maternità surrogata. Come mai?
Viviamo tempi abbastanza indecifrabili, almeno io li percepisco come tali.
Per tornare alla domanda iniziale di Wlodek sulla metafisica, il postmoderno eccetera, un effetto paradossale del fatto che si decostruiscono tutti i sistemi, tutti i valori e tutte le soggettività; un fatto paradossale di questa decostruzione è un nuovo dogmatismo, un bisogno di dogmatismo che contrasta totalmente con l’impostazione filosofica della decostruzione.
Il dogmatismo è quello per cui Kathleen Stock, famosa filosofa britannica, è stata estromessa dall’università perché sostiene che i sessi sono due o, come ricordiamo nel libro, un poeta è stato escluso dal Fringe Festival a New York perché ha scritto un poema che inizia con “There are two sexes”.
Come si spiega questo dogmatismo, che censura, che impedisce alle persone di parlare o accusa -attraverso questi nuovi moralismi- di transfobia persone che si sforzano di fare un discorso filosofico ragionato, argomentato. A noi non è successo, ma noto questo ritorno di un dogmatismo che è paradossale dentro una cultura della fluidità e della decostruzione.
Sofri. Allora: mi pare intuitivamente evidente che al posto di “donne di tutto il mondo unitevi...”, suonerebbe grottesco anche solo immaginare di poter dire “persone con utero di tutto il mondo unitevi”.
La domanda che ti fai, Olivia, come mai oggi succeda una cosa del genere, secondo me ha molte spiegazioni, ma soprattutto non so se vale la pena porsela. La prima e più forte spiegazione non è originale del movimento delle donne e delle sue evoluzioni, ma di quella temperie culturale che ha inventato la narrazione e che ha smobilitato la realtà.
Leggendo il vostro libro, come tante altre volte, mi è venuta molta nostalgia degli scritti di Sebastiano Timpanaro sul materialismo. Lui parlando di Leopardi e di Engels, che erano i suoi numi tutelari, arrivava a parlare del limite, della malattia, della paura della morte, della debolezza, cioè della vulnerabilità che pare essere diventato il filo conduttore, non solo di Judith Butler, ma anche, per esempio, di questo ultimo intervento di Naomi Klein su Gaza.
Perché penso che non valga la pena di farsi quella domanda? Perché, come anche voi dite, ma non so fino a che punto poi filate questo filo, penso che occorra ristabilire un’alleanza tra quei movimenti e quelli del femminismo.
Succede sempre che l’esplosione di un tema per così dire universale, le donne, che riguarda più della metà del genere umano, si vada poi articolando. Il proletariato era un’espressione che sembrava la più universale di tutte, la più capace di fomentare un vero internazionalismo. Dopodiché il proletariato diventò la classe operaia, la classe operaia diventò l’aristocrazia operaia, l’aristocrazia operaia cedette il passo al proletariato del terzo mondo, ai dannati della terra e così via. È un processo pressoché simile, non voglio paragonare cose la cui intimità è radicalmente diversa, però l’evoluzione è di questo genere.
Io sono arrivato qui con una grave preoccupazione, che poi ho scoperto fondata, perché io non ho nessuna opinione sulla maternità, nemmeno sulla gestazione per altre persone, veramente non ce l’ho. Ho il diritto di non averla, persino il dovere, di non averla, però penso di avere invece il diritto di essere completamente contrario alla penalizzazione di questo processo, e cioè alla legge che è stata appena votata in Italia, questa pretesa della legge universale. Quando la mia amica Alessandra, che non vedevo da cinquant’anni, mi ha detto oggi che lei è favorevole a questa legge, ci sono rimasto veramente male. Temevo che anche Adriana lo fosse.
Ma quello che mi preoccuperebbe sarebbe una specie di equidistanza, per cui i movimenti lgbtq accusano il femminismo della differenza di essere complice del neocattolicesimo tradizionalista e viceversa voi accusate i movimenti lgbtq eccetera eccetera. Allora io penso che non possa esserci oggi equidistanza, cioè che ci sia per così dire -per riprendere una formula che in altri campi rifiuterei- un “nemico principale”, perlomeno temporalmente principale. Perché nel lungo periodo, oltre al fatto che saremo tutti morti, c’è un problema molto più di fondo. Il nemico di oggi è quello che riassumevo prima, ricordando qual è la posta delle guerre e delle elezioni democratiche contemporanee.
Cavarero. Ti rispondo perché secondo me rischi di fare confusione. La legge sul reato universale, così come è stata scritta, è un mostro giuridico, non è applicabile, è un atto di propaganda. E appena verrà applicata a qualche donna o uomo che tornerà con il bambino da utero surrogato, costoro faranno ricorso e vinceranno, quindi è una pura mossa propagandista. L’ha fatta la Meloni, non me ne importa nulla. Qui c’è Alessandra Bocchetti. Bene, noi sono cinquant’anni che siamo femministe: non siamo subordinate ai partiti, né di destra né di sinistra. Se dico una cosa che sembra, che assomiglia al partito di destra non me ne importa nulla, non sono subordinata! Opero all’interno della soggettività femminile e mi sento libera con le mie compagne, che possono dissentire o consentire, ma mi interessa la loro opinione, non quella dei partiti, né di destra né di sinistra.
Poi ti faccio un’obiezione. Hai detto che hai letto bene Marx, hai detto che ti piace, che lo trovi ancora vicino. Se hai letto bene Marx come puoi dire che non ti pronunci sullo sfruttamento dei corpi femminili nel mercato della procreazione? Per favore! O hai letto Marx o non l’hai letto!
Sofri. Mi hai ascoltato male…
Cavarero. L’atteggiamento di questi uomini e donne (ma più uomini) che, come te, dicono di non avere un’opinione sulla gestazione per altri, assomiglia molto a dire: guardate ragazze che questa cosa non è importante, ma che la facciano questa gestazione per altri, che io discuto delle sorti del mondo e della grande guerra. Io dico basta a questo: se hai letto Marx, sii conseguente con la lettura di Marx!
Sofri. No, scusate, adesso lei ha imbrogliato. Ha detto: come fai a dire che non sei contrario all’uso mercenario del corpo delle donne? Ma io posso dire di essere favorevole all’uso mercenario del corpo delle donne!? Io ho detto: sono contrario a una legge che stigmatizza nel modo peggiore, che penalizza...
Cavarero. Ma questo è ovvio.
Dal pubblico. È veramente difficile entrare nel mondo, tra virgolette, “della fluidità” e rimanere fermi su certe posizioni. Per me è una cosa complicatissima. Però io mi domando se di fronte a una situazione così complicata, com’è tutto il discorso della fluidità e della necessità di una fermezza tant’è che siamo arrivati al fatto di parlare di femminismi e non più di femminismo; di fronte a questa difficoltà io penso che dobbiamo rimanere con un atteggiamento di apertura. Verrebbe più facile dire: “Ci vuole una risposta molto chiara, più definita, più precisa...”. Mi domando anche da dove viene questa fluidità, chiamiamola così. Comunque, rispetto a tutta questa problematicità, credo che bisognerebbe in ogni caso fare uno sforzo in più, per cercare di comprendere.
Cavarero. Il libro è rivolto alle ragazze. È una presentazione analitica di tutte le posizioni, fatta con un grande sforzo di apertura e di chiarezza, proprio per evitare le confusioni polarizzate e polemiche.
Guaraldo. Il libro vuole fare chiarezza, proprio perché molto spesso questa manca sulla questione “fluidità, queer, identità di genere, differenze sessuali”.
Perché l’abbiamo intitolato “Donna si nasce”, facendo il verso e ribaltando la frase di Simone de Beauvoir, “donna non si nasce, lo si diventa”? Perché molto spesso questa parola viene interpretata, soprattutto dalle giovani donne, nel suo significato riduttivo, cioè proprio come lo intendeva de Beauvoir, per cui “donna” è un processo di socializzazione o di costruzione culturale. La parola “donna” coinciderebbe sostanzialmente con il ruolo, con lo stereotipo.
La posta in gioco nel libro è invece quella di provare a pensare che donna non è solo un ruolo, non è solo una costruzione patriarcale. L’esperimento a cui invitiamo è quello di provare a dirci donne, non importa se lesbiche, bisessuali, eterosessuali, ma “donne”. Così che non ci sia più bisogno di dire di essere -se sei una lesbica- “maschio trans”. Donna è una parola che il femminismo ha voluto aprire; il femminismo ha voluto che quella parola fosse aperta e significabile da tutte le esperienze di libertà che le donne avrebbero fatto da lì in poi, non un pacchettino già pronto, per cui donna vuol dire che devo essere come mia madre, mia nonna o mia sorella.
L’apertura e il dialogo sono sicuramente alla base del nostro libro, i quali però necessitano di una chiarezza concettuale e lessicale.
Dal pubblico. Intanto volevo ringraziarvi tantissimo perché è stata un’occasione per me e le mie compagne che siamo qui in sala oggi e che facciamo parte di vari collettivi a Forlì. Sentire delle opinioni così forti, per quanto io non possa essere d’accordo con alcune cose, oggi mi fa battere il cuore e non è poco. Quindi vi ringrazio. Io credo che la battaglia sui diritti delle donne debba essere parallela a quella dello sfruttamento dei corpi trans. Non penso che le due battaglie siano scindibili in questo momento storico. Come credo vada fatta una battaglia parallela internamente ed esternamente. Un lavoro personale e individuale anche per ricongiungere la nostra parte femminile e maschile. E visto che avete parlato di analogie, quale analogia migliore di un corpo trans? Recentemente ho visto un documentario su sex worker, lavoratrici del sesso, prostitute, chiamatele come volete; una di loro, una persona nera, di New York, emarginata, transgender, povera -perché la lotta di classe c’è ancora nei nostri discorsi. Lei chiedeva: i vostri uomini, sapevano che eravamo transgender e si sono presentati per infilarsi dentro di me riconoscendo la mia femminilità vera. E voi pensate ancora che questa lotta non riguardi entrambe? È la domanda che pongo anche a voi. E poi volevo dare la parola alle mie compagne.
Dal pubblico. Una domanda breve. Eravamo curiose di capire a che fonti vi riferite dal punto di vista delle teorie queer quando dite che nel contemporaneo non c’è interesse per la battaglia per i diritti delle donne, perché la nostra esperienza nei movimenti è diversa. Ci sono persone che si riconoscono in identità di genere e soggettività diverse ma nessuno sta mettendo in discussione il fatto che la battaglia per i diritti delle donne non sia ancora arrivata alla fine. Anche quando riportate che le teorie queer dicono che esistono centomila sessi biologici, a chi vi riferite, con chi volete intrattenere questa polemica? Io forse conosco delle teorie queer diverse.
Cavarero. Intanto benvenute. Il libro lo abbiamo scritto per la gente giovane, per le ragazze, per i ragazzi e quindi siamo molto contente della vostra presenza. Le nostre fonti sono di vario tipo. Una delle fonti fondamentali è Judith Butler, ovviamente. Con Butler siamo molto amiche dagli anni novanta; io ho fatto pubblicare i suoi libri in Italia e lei i miei in America. Il prossimo aprile è programmato un incontro pubblico con lei in Italia. Per dire che il rapporto è molto buono. Dopodiché è molto difficile seguire l’evoluzione di Butler, o almeno seguire la storia della sua ricezione, a partire dai suoi testi giovanili sul gender, perché purtroppo scrive in una maniera difficile e molte e molti di quelli che la citano, lo fanno a sproposito, non avendo capito il testo. Io stessa, che pure mi sono fatta le ossa su Heidegger e Hegel, faccio fatica a seguire tutti i passaggi. Ma mi sono sforzata con lei, affinché mi spiegasse bene i passaggi e accogliesse le obiezioni, e così via. Io ho riportato le espressioni “i sessi sono molti”, riferendomi ad alcune teorie correnti secondo le quali ognuno ha il sesso auto-percepito. Comunque nelle fonti da me consultate, che sono fonti in lingua originale, non si parla di generi ma di sessi, di conformazioni sessuali alla nascita, quindi è la parola “sex” che viene usata, non la parola “gender”.
Cristina Gramolini. Ci sarebbero tante cose, ma vorrei spiegare perché io penso che la questione trans, che è una questione sociale, non abbia a che fare direttamente con il femminismo. Perché, a partire dalla differenza sessuale, il percorso che fa una donna nella sua ricerca di libertà e felicità, cioè a partire dal fatto che nasce con un corpo sessuato femminile, incontra certe contraddizioni e cerca la libertà (se la trova non si sa) e il percorso che fa una persona che nasce in un corpo sessuato maschile per cercare la libertà e la felicità possono incrociarsi, ma non sono sovrapponibili. Il pensiero della differenza aiuta a dire che le differenze non sono un ombrello dove all’interno è tutto uguale.
Io credo qui c’entri un’oblatività femminile: a noi non basta mai occuparci di noi. Noi ci sentiamo in colpa a occuparci di noi, perché c’è gente che soffre di più, ad esempio appunto le trans, i popoli del terzo mondo, “i proletari”. Allora noi non possiamo essere così egoiste da pensare alle nostre cose. Noi dobbiamo essere oblative. Una volta i marxisti ci chiedevano di posporre la questione della nostra libertà perché c’era di mezzo la rivoluzione; era una cosa un po’ borghesuccia pensare all’orgasmo femminile, alla nostra posizione, alla memoria storica delle nostre predecessore… Insomma, c’era la rivoluzione da fare! Le femministe però a un certo punto hanno detto: “Sai che c’è, questo è un discorso che mi decentra, mi opprime, mi cancella”.
Oggi la rivoluzione è tramontata. Ci sono settori giovanili giustamente alla ricerca di un mondo nuovo e migliore, che -soprattutto nelle componenti femminili- pensano: “Ma cosa ci fai solo con la donne bianche del primo mondo?”, “E le nere emarginate delle bidonville dove le mettiamo?”... Sia chiaro: il mondo è pieno di ingiustizie e le alleanze tra gli oppressi sono da costruire. Ma non con il sacrificio delle donne! Non per l’ennesima volta con l’auto cancellazione! Per questo noi diciamo: “C’è la differenza e a partire dalla differenza facciamo le alleanze”. Non che la donna trans e io che sono una lesbica siamo uguali, non che l’uomo trans che nasce femmina e vuole diventare maschio o la donna trans che nasce maschio e vuole diventare femmina sono uguali. Possono allearsi, se vogliono, se hanno degli obiettivi in comune, se no, non è obbligatorio. Noi non siamo a disposizione. Questo è il femminismo: non siamo a disposizione di nessun’altra rivoluzione, ognuno faccia la sua!
Dal pubblico. La mia domanda riguarda i bambini. Torno sulla Gpa. E mi espongo: io sono favorevole alla possibilità di normare la Gpa, la gestazione per altri. Ma in questo periodo così infuocato su questo tema penso ai bambini e ai ragazzi che sono nati grazie alla Gpa, che sono in mezzo a noi, che vanno a scuola con i nostri figli, che vanno in palestra, al campetto, che hanno una famiglia, degli amici…
Lo so che non li tocca a nessuno, ma il giudizio che si dà sulla loro nascita è “tu non dovevi nascere”, perché senza Gpa non nascevano, non sarebbero nati. Quindi io figlia di questa storia da grande scoprirò che la mia origine non doveva esserci.
Guaraldo. Scusami, o che “la mia origine è stata comprata”?
Dal pubblico. Dire che la mia origine è stata comprata è un pessimo modo di raccontarla. La gravidanza è un tempo di cura e il tempo di cura va pagato. Paghiamo le badanti…
Cavarero. Dov’è la cura nel fare un bambino a pagamento?
Dal pubblico. Volevo dire che non è vero che nella lotta queer non c’è la lotta di classe, anzi forse c’è un’utopica speranza di riuscire in una reale intersezione delle lotte per sconfiggere tutte le forme di dominio. C’è una grande consapevolezza del fatto che ci sono problemi classisti, di razza e di disequilibrio economico nella Gpa, ma ciò non toglie che siamo consapevoli che il faro dovrebbe essere quello dell’autodeterminazione e soprattutto della garanzia dei diritti. Normare significa garantire dei diritti. Si può discutere come farlo; è giusto discutere anche di quali sono le criticità perché ci sono, ma non si può ridurre la complessità della pratica della gestazione per altri al mercimonio, perché ci sono forme che garantiscono un rapporto più eguale. Dove c’era solo il potere c’è un problema. Facciamo in modo che non ci sia. Una provocazione: perché le badanti sì e le gestanti no? Se c’è un problema, ce lo dobbiamo porre per tutte le forme di sfruttamento che invece abbiamo sotto gli occhi quotidianamente.
Sofri. La mia osservazione brevissima è che naturalmente il bambino è al primo posto, io però sarei contrario anche a maltrattare i genitori: una volta che la cosa è avvenuta, i genitori sono da proteggere quanto i bambini.
Guaraldo. Abbiamo fatto tre giorni sul femminismo, in cui abbiamo capito quanto i corpi delle donne venissero sfruttati per fare i figli... sostanzialmente la storia del patriarcato è una storia di gestazione per altri. Si potrebbe dire: per fortuna che adesso ci pagano per farlo! Uno può anche cambiare la prospettiva e dire questo. Quello che io sinceramente non riesco a capire incarnandomi nelle posizioni diverse dalla mia è quale può essere l’adesione a una causa di questo tipo, se non ideologica? Cioè qual è l’adesione del tuo corpo, quando tu metti al mondo una nuova vita e dopo la lasci andare? Mia nonna ha partorito mio padre a 17 anni; sua mamma, come era uso a quel tempo se non eri sposata, glielo voleva far lasciare nel reparto di maternità. Lei ha tenuto duro, però il bambino non poteva stare presso di lei perché vivevano in un paesino, quindi è andato a balia. Mia nonna aveva i dolori al seno perché non poteva allattare. Oggi tutti questi problemi sono aggirabili attraverso la pillola, gli ormoni, ma come facciamo a fingere che questa memoria del corpo non ci sia? Come facciamo a dire che fare la badante è uguale a fare un figlio? Quale senso comune ci dà questa equivalenza? Quale?
Alessandra Bocchetti. Volevo dire una cosa brevissima a proposito di questa legge. Io sono d’accordo con Adriana: questa è una legge propagandistica. Ma propagandistica di cosa? Del fatto che io non voglio che in nessuna parte del mondo, in nessuno stato del mondo ci sia una donna che sia costretta a fare maternità per altri.
Questa considerazione riguarda me personalmente, è la mia posizione. Poi ho sentito che si vogliono difendere i bambini, che si vogliono difendere i genitori. Ma le donne non le difende nessuno? Scusa, Adriano, lo dico proprio a te. Ma quanti libri avete scritto sul lavoro alienato? È possibile che non lo si riconosca nel corpo di una donna? È assurdo…
Cavarero. Gli studiosi e le studiose di economia dicono che la normazione in realtà è ciò che vuole il mercato, perché in sua assenza si sente insicuro. Il mercato chiede norme perché questo aumenta e facilita il prodotto. Questa è una prima osservazione.
Seconda osservazione: nel libro abbiamo dedicato molte pagine alla questione della libera scelta e autodeterminazione. Adesso non la affronto perché dovrei fare tutti i distinguo su che cosa è la libertà, “il corpo è mio, me lo gestisco io”, ecc. Ma l’idea che ci sia una libera scelta di vendere il proprio corpo, di donare il proprio corpo, quando per contratto l’utero per nove mesi diventa proprietà dell’agenzia, per cui non si può abortire, ci si deve sottoporre a tutte le cure mediche… è assurda. Li dovete leggere i contratti per la gestazione per altri! Nell’utero della donna portatrice gestazionale viene impiantato l’ovulo di un’altra donna. I committenti sono per la maggior parte eterosessuali e bianchi, e vogliono figli bianchi. Quindi comprano l’ovulo di una donna bianca, il quale viene espiantato, viene fecondato e impiantato in una donna che non dev’essere necessariamente bianca, perché il patrimonio genetico è diverso. Ma proprio perché il patrimonio genetico è diverso per nove mesi la donna ha reazioni di rigetto e quindi deve essere continuamente medicalizzata. Come si può paragonare tutto questo al lavoro di una badante?
Dal pubblico. Grazie di queste ultime spiegazioni perché la confusione regna sovrana e il disorientamento impera. Io vorrei aggiungere solo un piccolissimo tassello perché molte spiegazioni sono già venute da questi ultimi interventi, precisi e molto documentati. Aggiungo solo un’ultima dimensione. Quando si parla dell’essere genitore si parla di prendersi cura nel tempo, di curare i bambini, amarli, star loro vicino e questo coinvolge per esempio anche le adozioni, perché un desiderio di genitorialità può essere espresso e realizzato con un processo adottivo. Chiedo: perché, mentre si dice questo, paradossalmente si insiste nel volere che il seme, l’ovulo, i caratteri genetici siano i miei? Dobbiamo rifletterci. Non sto criminalizzandolo, però pretendo che si discuta di questo paradosso: perché la componente genetica è così importante quando invece diciamo che la genitorialità è quella che si realizza nel tempo? Mettiamoci d’accordo tra noi.
Cavarero. Hai assolutamente ragione. Io sono tra coloro che lottano per l’allargamento dell’adozione alle famiglie arcobaleno, alle famiglie unigenitoriali, ai single. Il problema è che il desiderio di genitorialità (che si chiama così per censurare la parola maternità) è in verità un desiderio che è fortemente segnato in maniera -scusate- razzista, dal biologismo, perché si desidera un figlio che è carne della mia carne, sangue del mio sangue. Per cui c’è una bella differenza tra le adozioni e questo modo di schiavizzare una donna per avere un figlio o una figlia che sia geneticamente simile almeno a metà della coppia. Io combatto per l’adozione e l’allargamento dell’adozione. Su questo ci stanno i gruppi di ragazze che sono qua? Io su questo sono d’accordissimo, si può fare una battaglia in parlamento. Stranamente nella galassia lgbt, queer le adozioni non sono un argomento molto popolare.