Il due originario
discussioni
Una Città n° 294 / 2023 agosto
Intervista a Olivia Guaraldo
Realizzata da Barbara Bertoncin, Gianni Saporetti
IL DUE ORIGINARIO
La grandezza del femminismo, di dare dignità alla parola donna non più solo come qualcosa di accessorio all’uomo o al maschile, oggi rimossa, nel nome di un nuovo neutro; le parole sostituite: “donna” con “persona con utero” e “maternità” con “gestazione”; mentre si invoca un “rispetto della natura” in nome dell’ambiente si professa una “rivoluzione della natura” per l’essere umano; la rimozione del limite di ciò che è dato. Intervista a Olivia Guaraldo.
Olivia Guaraldo insegna filosofia politica all’Università di Verona. È Studiosa di Hannah Arendt, a cui ha dedicato due monografie, e dei femminismi contemporanei. Ha curato e introdotto due edizioni italiane di testi di Judith Butler e ha scritto sui rapporti fra il femminismo della differenza e le gender theories. Dirige il Centro Studi politici Hannah Arendt presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona.
Vorremmo proseguire il dibattito sul tema dell’identità di genere aperto con la lunga intervista a Kathleen Stock uscita nello scorso numero.
Kathleen Stock tocca questioni cruciali, la prima delle quali è la forte censura che avviene nel contesto accademico britannico, per chi solo mostra di avere posizioni diverse rispetto a quelle dominanti sul gender. Personalmente sono a conoscenza di censure analoghe, magari non così plateali, anche in Italia. Per esempio, verso chi si occupa di questioni legate alla transizione dal punto di vista giuridico: se esprimi qualche dubbio, una lieve perplessità sulla facilità con cui gli adolescenti possono sottoporsi a terapia ormonale, vieni immediatamente escluso dal dibattito, ostracizzato, silenziato.
Da un punto di vista culturale forse è interessante chiedersi come mai si sia arrivati a instaurare queste nuove forme di censura e di dogmatismo. Cioè, all’apice della vittoria del relativismo, del multiculturalismo, della critica all’eurocentrismo, insomma, nel momento storico-culturale in cui ci troviamo, in cui ogni credenza viene messa in discussione, è come se risorgesse il bisogno di un nuovo dogmatismo. Il che è paradossale perché le teorie che propongono uno smantellamento della dualità dei sessi sono il frutto della filosofia post-moderna e decostruzionista, di una filosofia che mette in discussione, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, i concetti di uomo, soggetto, coscienza. Si tratta di un percorso anche concettuale che inizia con la volontà di smantellare, di decostruire e però, alla fine di questa parabola, scopriamo un rinnovato bisogno di dogmatismo o di quello che potremmo chiamare un nuovo conformismo.
L’altra faccia di questo fenomeno è che le forme ultime, più estreme, di radicalismo vengono oggi identificate con queste posizioni, per cui appunto la tua identità sessuale è quella che dichiari o che intenzionalmente assumi, indipendentemente da ciò che sei materialmente, biologicamente.
Quello che voglio dire è che oggi queste posizioni sono interpretate come quelle politicamente più radicali, e non solo rispetto al sesso o al femminismo, ma politicamente più radicali in genere. Come se la politica fosse tutta incentrata sulla capacità di smantellare la “natura” e assumere una identità che è solo intenzionale; come se, in altre parole, la politica coincidesse del tutto con la questione dell’identità, in una prospettiva molto soggettiva, iper-individualizzata direi. Come facciamo a portare avanti politiche ambientali se siamo così concentrati solo sulla percezione di noi stessi? Mi sembra che ci sia un grande scollamento in questo senso.
La preoccupazione è che, paradossalmente, si torni indietro. Se la donna è la femmina adulta della nostra specie, questo nulla dice su chi e come dobbiamo essere. Se invece questo termine è totalmente avulso dalla dimensione corporea, biologica, con quali criteri definiamo l’essere donna? Quali caratteristiche dovrebbe avere? È una strada insidiosa ed è emblematico che la rappresentazione del genere di arrivo di personaggi pubblici che hanno fatto la transizione tradisca un’idea di donna e di uomo molto stereotipata, conformista.
La questione femminista centrale è proprio questa. È curioso che la traiettoria intrapresa da quelle riflessioni abbia portato a un esito non previsto dalle stesse femministe. Dal punto di vista di molte femministe radicali, il femminismo ha liberato la parola donna dal suo uso patriarcale, stereotipato e legato a un preciso ruolo.
Il femminismo ha riempito la parola donna di ulteriori significati, ma soprattutto ha aperto quella parola a una dimensione di libertà. Per me la parola più importante del femminismo non è uguaglianza, ma libertà. Ebbene, siamo passati da questa apertura della parola donna, la grande conquista del femminismo, a una sua chiusura. Invece, il femminismo ci ha insegnato che anche le donne che non si adattano perfettamente allo stereotipo del femminile sono donne. Questa è la grandezza del femminismo, di dare dignità alla parola donna nella sua autonomia, non più solo come qualcosa di accessorio all’uomo o al maschile. Già negli anni ’70 una parte del pensiero femminista radicale (su questo si veda F. Restaino, A. Cavarero, Le filosofie femministe, Pearson, 2022) riteneva che fosse necessario abbandonare la parola donna perché troppo compromessa con il patriarcato, troppo dipendente da esso. Invece, il portato cruciale del pensiero della differenza è stato di voler valorizzare quella parola -donna- e con essa le esperienze e l’autonomia del femminile. Tutto ciò però poteva darsi solo se il femminile cominciava a interrogarsi prescindendo dal maschile. Questa è stata la strada intrapresa dal separatismo femminista.
Oggi invece è come se tutta quella complicata vicenda della parola donna, della sua apertura, della sua liberazione, non ci fosse stata, per cui si torna a un uso di quella parola assolutamente tradizionale, conservatore, se vuoi addirittura reazionario, patriarcale. Come se essere donna rimandasse immediatamente solo alla eterosessualità, all’iperfemminilizzazione, ai ruoli di madre, moglie, seduttrice etc... È questo che spesso non si vede o non si vuole vedere.
C’è un’altra questione importante, che il :pensiero della differenza ha messo in evidenza ed è una questione filosofica. Noi abbiamo lottato per arrivare a riconoscere che “l’uomo”, inteso come il neutro universale, non va bene perché è un termine che pretende di valere per gli uomini e le donne, includendo le donne nel neutro della parola “uomo”. Il lavoro del femminismo è stato quello di dire: esiste anche l’essere umano sessuato al femminile con delle sue specificità, delle sue differenze, con un portato culturale e simbolico diverso. Si tratta di dare valore e dignità a questa differenza, segnalandone l’esistenza, persino la vitalità, senza ovviamente dettare a priori i caratteri o i modi in cui questa differenza si poteva manifestare. Chi accusa il pensiero della differenza di essere “essenzialista”, cioè di porre un’essenza del femminile come normativa, mistifica la questione. Che è semmai un’altra. Il pensiero della differenza dice: c’è un essere umano che si spartisce, prevalentemente, in due sessi. Del resto, la storia del patriarcato è segnata da una certa interpretazione maschile di questa differenza. Il femminismo della differenza vuole dare un significato nuovo a questa differenza, che valorizzi le donne, ma che smascheri anche la pretesa del termine “uomo” di parlare per entrambi i sessi. La logica filosofica dell’Occidente invece non accoglie questa originarietà del due: “Se all’Uomo con la maiuscola si aggiunge la donna, allora perché non aggiungere anche altri?”. Come se, in altre parole, l’emergere della differenza aprisse a infinite differenze. Come se questa rottura dell’uno portasse immediatamente all’apertura ai molti, e l’esito di questa operazione concettuale è una nuova cancellazione della donna come umano originario.
Inoltre, nella dialettica uno-molti la donna viene assimilata alle minoranze sessuali o a una categoria sociale, e questo è sbagliato. La portata radicale del pensiero della differenza, che non è un pensiero sociologico, bensì filosofico, sta proprio qui: c’è un’originaria differenza di corpi. Questo è un fatto anatomico, fisiologico, ormonale, ma non si tratta di definire con riduzionismo biologista l’umano a partire da questa differenza, ma nemmeno negarla. Si tratta di una differenza che è anche simbolica e culturale. Il problema è come dare significato a questa differenza in maniera non patriarcale. Il patriarcato ha sempre dato significato a questa differenza sessuale: le donne sono subordinate agli uomini, fanno i figli, sono impolitiche... La sfida femminista era volta a far sì che questa differenza significasse in maniera diversa.
Adesso noi vediamo arrivare al pettine tanti nodi perché quella differenza sessuale alla fine non è mai stata accettata fino in fondo. Il pensiero Lgbtq in qualche modo vuole superare questa originarietà del due e appunto dire che ci sono i molti; maschile e femminile, l’originario spartirsi in due sessi, sarebbe in realtà una imposizione eteronormativa, che quindi opprime e normalizza chi non si riconosce in questa dualità. Da lì si arriva a postulare la categoria di queer, che è ciò che appunto non si conforma al binarismo dei sessi. A mio avviso, il problema di questa posizione è che nel voler liberare le minoranze sessuali dalla discriminazione -cosa giustissima, per altro- finisce per cancellare non tanto l’uomo, categoria che anche le femministe volevano mettere in discussione, ma soprattutto la donna. Questo lo si vede nelle operazioni linguistiche che vogliono adottare, l’asterisco o la schwa o l’espressione “persona con utero” anziché donna.
Ora non è che le femministe siano delle bigotte. La rivolta delle femministe vecchio stampo o terf, come ora vengono chiamate, non è certo contro le pratiche sessuali non eterosessuali, ma contro la cancellazione delle donne!
In effetti anche il ddl Zan metteva assieme donne e disabili...
Esatto. È come se non fossimo mai usciti dal neutro universale. Gli effetti di quella impostazione sono ancora molto visibili: vige un modello di umano che non viene minimamente scalfito dal fatto che tutto quello che non è a esso riconducibile sia minoranza.
Ripeto, una delle sfide del pensiero femminista, dal punto di vista filosofico, era mettere in crisi un certo modello di soggettività e far emergere la legittimità teorica di altri modelli di soggettività: relazionale, dipendente, eccetera e non sempre e solo l’indipendenza, l’autonomia, la razionalità. Invece è come se fosse stato codificato solo quello come modello legittimo, sovrano.
La maternità in questo quadro che fine fa? Emerge quasi un’avversione anche per questa parola...
Il femminismo nelle sue molteplici forme ha avuto sempre un rapporto ambiguo con la maternità. Per molte femministe l’idea era: solo se superiamo questo “destino biologico” -per citare Simone de Beauvoir- saremo veramente libere. Questa è stata la posizione di molta parte del femminismo, anche radicale. Poi invece, sempre dentro al femminismo, per dire quanto ricca è questa galassia, ci sono state importantissime teorizzazioni sulla maternità, a partire dal testo di Adrienne Rich Nato di donna,del 1976, dove l’autrice fa una distinzione fra la maternità come istituzione e la maternità come esperienza. Attraverso una ricostruzione della storia della maternità, ma anche attraverso un processo di presa di consapevolezza di sé, come donna, femminista. Ecco, Rich dice: dobbiamo mettere in discussione l’istituzione patriarcale della maternità, riappropriandoci invece dell’esperienza esclusivamente femminile della maternità. Lo dice una donna che è sia madre sia severa critica del patriarcato e teorizzatrice del pensiero lesbico.
A partire da Rich c’è tutto un filone che valorizza la maternità come esperienza femminile. Questo è un elemento importantissimo del femminismo. Proprio quando negli anni Settanta la maternità non diventa più un destino ma una scelta o appunto un percorso di libertà, c’è la possibilità di attribuirle altri significati.
Dalla valorizzazione dell’esperienza della maternità in chiave femminista emergono successivamente interessanti filoni di pensiero che tematizzano la relazionalità originaria di ogni essere umano, la sua originaria vulnerabilità e quindi la necessità di pensare l’etica della cura.
Molta riflessione contemporanea su vulnerabilità, cura, relazione scaturisce dalla riflessione femminista.
Il tentativo del pensiero della differenza ma anche di parte del femminismo radicale degli anni Settanta è stato quello di riappropriarsi della maternità come esperienza incarnata, vissuta, reale e concreta.
Adesso invece siamo arrivati all’aberrazione di chiamare la maternità “gestazione”, un’operazione linguistica per cui l’esperienza della maternità, cioè dell’avere nel proprio corpo una forma di vita che poi diventa un essere umano, viene definita con un termine medico, scomponendo il processo di creazione della vita in varie fasi, così da smantellare del tutto l’esperienza complessiva della maternità, che non è solo biologica o ormonale.
Qui si apre tutta la questione del dibattito sulla gestazione per altri, detta anche maternità surrogata o utero in affitto.
Quello che personalmente trovo davvero triste è questo. I dispositivi tecnologici e scientifici sembrano oggi inarrestabili, per cui sinceramente penso che sia difficile fermarli, o che sia per lo meno complicato. Ciò che mi stupisce e che mi delude è che una parte della sinistra assuma in maniera del tutto acritica questa stessa direzione, presentandola come un’esperienza di libertà o di diritti.
È chiaro, ad esempio, che la chirurgia plastica, la possibilità di modellare il proprio corpo, anche senza parlare di transizione sessuale, è un segno dei nostri tempi. Però non penso che sia una battaglia di sinistra potersi rifare il seno, le labbra o gli zigomi. Come mai invece è diventata una battaglia di sinistra quella di assecondare questi dispositivi, e il mercato che c’è dietro, facendola passare per qualcosa di progressista, in materia di maternità surrogata? Questo per me è un grande mistero. Soprattutto perché ci sono interessi economici e processi di sfruttamento molto evidenti nei mercati della gestazione per altri e l’argomento contrario che la ammette, ma solo nella forma del dono, mi sembra una grande ipocrisia. Non puoi donare un altro essere umano; è come trasformare l’essere umano in un oggetto che tu produci e doni a qualcun altro. Filosoficamente è molto problematico: si può decidere di produrre un essere umano per donarlo?
Su questo riflette in maniera filosoficamente interessante Alessio Musio sulla rivista “Vita e Pensiero”, affermando che “se ogni persona può sempre donare qualcosa di sé, questa facoltà di dono non può estendersi al dono di un’altra soggettività (il figlio). A poter essere donate sono solo le cose e non le persone”. Questa è un’importante riflessione sul piano etico che almeno segnala un problema piuttosto grande. Nel dibattito si fa tanto parlare del benessere di bambine e bambini nati dalla surrogazione, nei cui confronti chi vuole vietare la surrogata non ha alcun rispetto. Eticamente però, bisognerebbe chiedersi che rispetto hanno per i bambini e le bambine coloro che li commissionano ad altri o se li fanno “donare”? Quale rispetto per chi è coscientemente progettato per essere donato o venduto? Mi sembra tutto incongruente, se non folle.
Io trovo lo stesso processo linguistico che sostituisce maternità con “gestazione” molto violento: non si parla più della madre, ma della portatrice, della donatrice di ovuli... Una nuova cancellazione delle donne e della loro esclusiva potenzialità generativa: mi pare che si compia qui una nuova ingiustizia storica. Io penso a tutte le donne del passato che hanno lottato per veder riconosciuta la propria esistenza, la propria identità. È come se adesso con un colpo di spugna tutto venisse cancellato.
E badate bene, non è solo una questione dei cattolici, interessati ovviamente all’aspetto etico, e nemmeno una questione del femminismo “eterosessuale”. È interessante, infatti, che siano le lesbiche le donne che più soffrono di questa cancellazione. Anche in Italia la posizione di Arcilesbica rispetto sia all’identità di genere sia alla maternità surrogata è molto chiara, molto forte e ha avuto un ostracismo pazzesco da parte di tutto il movimento Lgbt.
C’è questo bellissimo libro di Arcilesbica, Noi le lesbiche, Preferenza femminile e critica al Transfemminismo (Il dito e la luna, Milano, 2021) un testo sia teorico che di racconto di come sono andate le cose dentro il movimento dopo la grande battaglia per le unioni civili. Il fatto che sin dal giorno dopo si sia subito passati a discutere del tema della maternità surrogata è stato vissuto come una profonda violenza dentro il movimento.
Come si spiega?
Carla Lonzi negli anni Settanta scrive contro un femminismo dell’uguaglianza e della parità perché in quella operazione dell’emancipazione lei vede una trappola di assimilazione. Alla fine per avere gli stessi diritti degli uomini o di un ipotetico soggetto neutro dobbiamo in qualche modo rinunciare a essere donne, diventare come i maschi. Questo processo di assimilazione è un processo di cancellazione della differenza ed è esattamente quello che avviene adesso per esempio in queste operazioni linguistiche, dove la parola donna viene rifiutata perché ritenuta non inclusiva.
Anche qui c’è un ritorno. C’è di nuovo un fastidio per la differenza femminile, per la differenza sessuale e quindi una sua neutralizzazione proprio nel doppio senso di neutralizzazione linguistica ma anche di neutralizzazione politica.
Fino a che le donne sono soggetti vulnerabili, deboli, da tutelare, rientrano cioè nel paradigma familiare di una “minoranza”, allora va bene parlare di violenza contro le donne o di ingiustizia e discriminazioni. Se invece le donne vogliono essere riconosciute come soggetto alla pari degli uomini, nella loro differenza, ecco che questo non va più bene e all’improvviso la donna diventa un soggetto che esclude altri soggetti!
Se ci pensate è curioso. Qui ci sono tanti cortocircuiti anche dal punto di vista concettuale. Questo lo dico spesso alle mie studentesse con cui ho sovente delle discussioni. Loro sarebbero più orientate verso una prospettiva diciamo queer, le nostre discussioni sono spesso molto accese e interessanti, istruttive anche per me.
Se mi limito a raccontare in classe il percorso di discriminazione subìto dalle donne nella storia, le ingiustizie nei loro confronti, eccetera, loro mi seguono con interesse ed entusiasmo. Se però faccio un discorso più “positivo” sulle donne, in un’ottica del pensiero della differenza sessuale, affermando che c’è una differenza femminile che va valorizzata, subito si ritraggono, diventano sospettose, perché interpretano la differenza sessuale come una sorta di essenzialismo. In realtà il femminismo della differenza non fa un discorso essenzialista.
Anche questo è interessante: nella riflessione anglo-americana si tende a intendere la differenza sessuale solo come differenza biologica, come qualcosa, appunto, di corporeo, biologico, e quindi muto e da superare. Mentre il pensiero della differenza sessuale, come ho già detto, è all’incrocio fra il materiale, il corporeo e il culturale o simbolico e una delle sue sfide è dire: proviamo a pensare questa differenza sessuale al di fuori di come il patriarcato l’ha pensata.
Dal punto di vista filosofico questo è un percorso che è stato iniziato ma che non si è concluso. La differenza sessuale non è qualcosa che si possa stabilire una volta per tutte a priori, su cui dettare un dogma, una norma. L’assunto di base è quello di un’apertura che deve costantemente essere riempita di significati, a partire però da un’incarnazione corporea in un corpo sessuato, a partire da una spartizione nei due sessi del maschile e del femminile e dove ciascun sesso dovrebbe pensarsi a partire dalla sua parzialità, non da un’ipotetica universalità. È una critica al modello neutro universale che tutto ingloba.
Questa idea di una parzialità che però è radicata in un corpo e in una differenza è secondo me un punto di partenza molto proficuo, che permette di fare molte cose: per esempio, di non ridurre il femminile alla sua differenza biologica, ma nello stesso tempo di non cancellare quella differenza biologica, di non far finta che non ci sia. È un processo che merita di essere ulteriormente esplorato. Proprio per aprire quel significante donna a una libertà che io ancora non vedo. Vedo piuttosto ritornare prepotenti gli stereotipi. Anche in questa apparente apertura di tutti i sessi e tutti i generi, è come se ci fosse una specie di strana nostalgia o attaccamento a una definizione rigida di che cosa è una donna. Come se ci fosse il bisogno di stabilire che cos’è una donna in maniera ferma e stabile, per poi rifiutare dal punto di vista della fluidità e del queer proprio quel femminile stereotipato. Si tratta però, questo il paradosso, di un femminile molto patriarcale, come se il femminismo non ci fosse stato.
Spesso i soggetti che animano le manifestazioni diciamo queer condividono la lotta per l’ambiente. Vorrei introdurre il tema del limite. Abbiamo pensato che grazie alla scienza e alla tecnologia si potesse abbattere qualsiasi limite e proprio la crisi climatica ci ha fatto prendere coscienza della situazione. Di là si parla però di rivoluzione contro la natura, quindi di abbattimento dei limiti. Non c’è una specie di delirio di onnipotenza in questo affidarsi alla scienza e alla tecnologia in nome di un’ansia di liberazione. Sembra tutto paradossale...
Ho letto di recente una recensione all’ultimo libro del filosofo Paul B. Preciado e riflettevo sul fatto che molto spesso questa messa in discussione dei ruoli tradizionali di genere o delle identità di genere in alcuni di questi teorici è affiancata a una critica ai modelli di sviluppo della società occidentale e quindi alla crisi climatica. Anch’io vedo qui una forte contraddizione. Come puoi condurre in maniera così esasperata la tua battaglia contro la “natura” che hai dentro di te, e di cui noi siamo delle specificazioni, e simultaneamente lottare per il rispetto della natura? Come conciliare una battaglia tutta concentrata su di sé, sulle proprie preferenze e desideri, sulla propria auto percezione con una che invece punta a mettere da parte se stessi per occuparsi del mondo?
Questa dimensione del limite appare assolutamente cancellata, negata quando si tratta del quadro biologico dentro il quale ci troviamo a essere. Insomma, critichiamo il turbocapitalismo che sfascia il pianeta ma contemporaneamente smantelliamo la natura che noi siamo. Mi pare piuttosto contraddittorio.
C’è una frase di Hannah Arendt che mi ha sempre colpito molto. Riflettendo sul suo essere ebrea e donna lei scrive: “Provo una fondamentale gratitudine per ciò che è dato” (for what has been given). “Ciò che è dato” nel senso di qualcosa che tu non scegli.
La fondamentale gratitudine per ciò che è dato secondo me ha a che fare proprio con questa percezione di un limite, del fatto che c’è qualcosa che ti eccede, che non puoi determinare volontaristicamente. La vicenda umana è anche un percorso, un venire a patti -spesso lungo e doloroso- con questo nostro essere così e non altrimenti. Qui emerge invece una rimozione, una non accettazione di sé.
Carla Lonzi, nei suoi testi, parla di una “accettazione di sé” da parte delle donne che non vuole naturalmente dire una supina sottomissione ai ruoli, ma un’accettazione di sé come primo passo per un percorso di libertà femminile.
Quello che io osservo tristemente oggi è che spesso sono le ragazze più giovani a non accettare questa loro datità. È come se il femminismo, per certi versi, non fosse accaduto; persistono dei forti stereotipi femminili a cui le ragazze sentono di doversi adeguare o di non potersi per niente adeguare. L’esito è che rifiutano il femminile in blocco. Come se femminile volesse dire essere solo quella cosa lì.
L’aumento, repentino e imponente, del numero delle transizioni da femmine a maschi registrato negli Stati Uniti, mentre nel passato il fenomeno, molto contenuto, riguardava il processo inverso, sembra segnalare un disagio prettamente femminile. Questa disponibilità a dar via la parola donna tradisce forse la difficoltà che le giovani donne incontrano nell’essere se stesse? Il venir meno del vecchio ordine e l’assenza di uno nuovo crea una situazione complicata, anche dolorosa.
Temo sia proprio così. Si rifiuta la parola donna perché la si percepisce ancora legata alla sua versione patriarcale, come ho già detto. In qualche modo è anche un fallimento del femminismo. Il femminismo della parità, dell’uguaglianza ha una forte carica assimilazionista, per cui se tu donna vuoi la parità, ti assimili a un modello maschile, quindi aggressivo, competitivo oppure iperseduttivo e tutte quelle forme di femminilità o di essere donna che non si adeguano vengono ritenute fallimentari, residuali. Intendiamoci, anch’io volevo essere un maschio quando avevo dieci anni, anch’io facevo resistenza a che questo corpo prendesse una forma che mi impediva una certa libertà, eccetera.
Ecco, questo complicato processo di soggettivazione che si attraversa nella fase in cui si assumono i caratteri sessuali maschili o femminili una volta non aveva immediatamente a disposizione la possibilità del rifiuto di una cosa e l’assunzione di un’altra. Adesso invece c’è anche questa nuova merce -perché dobbiamo dirlo che è una nuova merce- e quindi: perché no?
Oggi si definiscono “maschi trans” persone che una volta sarebbero perfettamente rientrate nell’estetica della lesbica butch, donne ipermascolinizzate. Qual è il problema di vivere il proprio essere donna nelle forme di un’estetica più mascolina e di un rapporto lesbico?
Ero convinta che il femminismo, e con esso l’epoca della cosiddetta liberazione sessuale, ci avesse insegnato che ciascuna/o può vivere la propria sessualità come vuole, senza però trasformare questa libertà in un nuovo conformismo queer. Invece adesso c’è proprio questo bisogno di incasellare la soggettività in una nuova identità, quella appunto di maschio trans. Io qui di nuovo vedo il rifiuto di volersi dire donna.
Ora, io non so se sia un effetto di quel contagio sociale di cui parla anche Kathleen Stock, di questa omologazione, di questo conformismo che vale dentro i movimenti come in tutte le altre parti della società. Però per me è significativo il fatto che il fenomeno riguardi soprattutto le ragazze adolescenti.
D’altra parte, io non vivo a New York e non vivo neanche a Milano; la provincia italiana è ancora estremamente rigida dal punto di vista dei ruoli di genere. Se vai all’uscita di una scuola, sembra siano tutte ragazze madri! Non vedi mai un padre; nel giro di cinque anni ne avrò visti un paio; sono figure inesistenti. C’è una persistenza nella società italiana di questo modello patriarcale. Io invece sono favorevolissima all’interscambio dei ruoli di genere dentro la famiglia: è l’elemento fondamentale per la libertà delle donne e anche dei figli francamente. Qui invece siamo ancora molto arretrati.
Contemporaneamente si assiste a una maggioranza di situazioni estremamente tradizionali e poi queste schegge di posizioni iper radicali che però non impattano realmente sulla vita della maggioranza delle persone, soprattutto delle donne. C’è ancora molto lavoro da fare in questo senso.
Le attuali forme di lotta di questi movimenti ricalcano quelle degli anni Settanta: c’è un’aggressività, una violenza, per ora prevalentemente verbale, ma che può produrre appunto licenziamenti, ostracismi eccetera; una violenza che nella storia è tipicamente maschile: pubblicare il nome, l’indirizzo, quest’ansia quasi di linciare, per quanto non fisicamente, chi la pensa diversamente fa pensare a una sorta di rivincita, a un’ondata sotterranea di maschilismo... c’è qualcosa che ritorna.
È vero ed è un elemento molto interessante. Anche nel movimento “Non una di meno” si riscontrano delle modalità, anche estetiche, di lotta reminiscenti degli anni Settanta. È come se non ci fosse stata alcuna evoluzione rispetto a come si interpreta il radicalismo di una battaglia.
È come se anche questo aspetto del femminismo, con le sue forme di ironia, non violente, fosse stato dimenticato. Riemerge la matrice di una tradizione che ha i suoi miti e suoi mitologemi e che continua a essere richiamata - una matrice bellicista. Il manifesto fatto contro Kathleen Stock è tremendo e mi ha fatto molta impressione, un attacco così ad personam... queste forme di linciaggio sono effettivamente molto maschili. D’altra parte, continua a sembrare più “cool”, più radicale adottare quei metodi invece di cercarne altri.
Devo dire che sui social vedo che molte femministe della generazione precedente assumono posizioni vicine al movimento Lgbt, con argomentazioni talvolta un po’ fumose. A sinistra continua a funzionare questo spettro di essere assimilati alla destra, e allora, anche forse per continuare a cavalcare la radicalità del movimento, si accettano posizioni che un tempo si sarebbero rigettate, come nel caso della maternità surrogata.
Ora, la gestazione per altri non è una questione esclusivamente maschile però è fuor di dubbio che una genitorialità lesbica e una genitorialità gay non sono la stessa cosa. C’è una differenza sessuale anche nell’omosessualità che sarebbe così ipocrita, così fittizio non riconoscere.
Pensiamo alla differenza -anche qui sessuale, biologica- tra la donazione di sperma da parte di un uomo e invece la donazione di ovuli da parte di una donna. Le donne che donano i loro ovuli devono essere sottoposte a terapie ormonali per farne aumentare la produzione e poi l’estrazione è molto più invasiva rispetto alla raccolta dello sperma. Tra l’altro l’eiaculazione, come ricorda Carla Lonzi, corrisponde al momento del piacere del maschio mentre per la donna piacere e fecondazione non sono così strettamente legati.
Non voler riconoscere o voler dissolvere queste differenze anatomiche in un discorso giuridico o appunto neutralizzante di “genitorialità”, a mio avviso, oltre a essere violento è proprio falsificante.
Voglio aggiungere un’altra considerazione. Quando parliamo di sessualità, intesa sia come pratica sessuale sia come esistenza sessuata, non stiamo parlando di cose astruse, e come studiosi e studiose non stiamo trattando di un manoscritto del quinto secolo, stiamo invece parlando di tematiche che riguardano le vite di tutte e di tutti, questioni concrete in cui tutti possono riconoscersi. Quanti significati ha una parola come genere o gli avverbi e gli aggettivi derivati da questo sostantivo?
Per questo è così importante che questi dibattiti escano dall’accademia e che si faccia un po’ di chiarezza, anche teorica, concettuale, su queste questioni.
(a cura di Barbara Bertoncin e Gianni Saporetti)
Vorremmo proseguire il dibattito sul tema dell’identità di genere aperto con la lunga intervista a Kathleen Stock uscita nello scorso numero.
Kathleen Stock tocca questioni cruciali, la prima delle quali è la forte censura che avviene nel contesto accademico britannico, per chi solo mostra di avere posizioni diverse rispetto a quelle dominanti sul gender. Personalmente sono a conoscenza di censure analoghe, magari non così plateali, anche in Italia. Per esempio, verso chi si occupa di questioni legate alla transizione dal punto di vista giuridico: se esprimi qualche dubbio, una lieve perplessità sulla facilità con cui gli adolescenti possono sottoporsi a terapia ormonale, vieni immediatamente escluso dal dibattito, ostracizzato, silenziato.
Da un punto di vista culturale forse è interessante chiedersi come mai si sia arrivati a instaurare queste nuove forme di censura e di dogmatismo. Cioè, all’apice della vittoria del relativismo, del multiculturalismo, della critica all’eurocentrismo, insomma, nel momento storico-culturale in cui ci troviamo, in cui ogni credenza viene messa in discussione, è come se risorgesse il bisogno di un nuovo dogmatismo. Il che è paradossale perché le teorie che propongono uno smantellamento della dualità dei sessi sono il frutto della filosofia post-moderna e decostruzionista, di una filosofia che mette in discussione, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, i concetti di uomo, soggetto, coscienza. Si tratta di un percorso anche concettuale che inizia con la volontà di smantellare, di decostruire e però, alla fine di questa parabola, scopriamo un rinnovato bisogno di dogmatismo o di quello che potremmo chiamare un nuovo conformismo.
L’altra faccia di questo fenomeno è che le forme ultime, più estreme, di radicalismo vengono oggi identificate con queste posizioni, per cui appunto la tua identità sessuale è quella che dichiari o che intenzionalmente assumi, indipendentemente da ciò che sei materialmente, biologicamente.
Quello che voglio dire è che oggi queste posizioni sono interpretate come quelle politicamente più radicali, e non solo rispetto al sesso o al femminismo, ma politicamente più radicali in genere. Come se la politica fosse tutta incentrata sulla capacità di smantellare la “natura” e assumere una identità che è solo intenzionale; come se, in altre parole, la politica coincidesse del tutto con la questione dell’identità, in una prospettiva molto soggettiva, iper-individualizzata direi. Come facciamo a portare avanti politiche ambientali se siamo così concentrati solo sulla percezione di noi stessi? Mi sembra che ci sia un grande scollamento in questo senso.
La preoccupazione è che, paradossalmente, si torni indietro. Se la donna è la femmina adulta della nostra specie, questo nulla dice su chi e come dobbiamo essere. Se invece questo termine è totalmente avulso dalla dimensione corporea, biologica, con quali criteri definiamo l’essere donna? Quali caratteristiche dovrebbe avere? È una strada insidiosa ed è emblematico che la rappresentazione del genere di arrivo di personaggi pubblici che hanno fatto la transizione tradisca un’idea di donna e di uomo molto stereotipata, conformista.
La questione femminista centrale è proprio questa. È curioso che la traiettoria intrapresa da quelle riflessioni abbia portato a un esito non previsto dalle stesse femministe. Dal punto di vista di molte femministe radicali, il femminismo ha liberato la parola donna dal suo uso patriarcale, stereotipato e legato a un preciso ruolo.
Il femminismo ha riempito la parola donna di ulteriori significati, ma soprattutto ha aperto quella parola a una dimensione di libertà. Per me la parola più importante del femminismo non è uguaglianza, ma libertà. Ebbene, siamo passati da questa apertura della parola donna, la grande conquista del femminismo, a una sua chiusura. Invece, il femminismo ci ha insegnato che anche le donne che non si adattano perfettamente allo stereotipo del femminile sono donne. Questa è la grandezza del femminismo, di dare dignità alla parola donna nella sua autonomia, non più solo come qualcosa di accessorio all’uomo o al maschile. Già negli anni ’70 una parte del pensiero femminista radicale (su questo si veda F. Restaino, A. Cavarero, Le filosofie femministe, Pearson, 2022) riteneva che fosse necessario abbandonare la parola donna perché troppo compromessa con il patriarcato, troppo dipendente da esso. Invece, il portato cruciale del pensiero della differenza è stato di voler valorizzare quella parola -donna- e con essa le esperienze e l’autonomia del femminile. Tutto ciò però poteva darsi solo se il femminile cominciava a interrogarsi prescindendo dal maschile. Questa è stata la strada intrapresa dal separatismo femminista.
Oggi invece è come se tutta quella complicata vicenda della parola donna, della sua apertura, della sua liberazione, non ci fosse stata, per cui si torna a un uso di quella parola assolutamente tradizionale, conservatore, se vuoi addirittura reazionario, patriarcale. Come se essere donna rimandasse immediatamente solo alla eterosessualità, all’iperfemminilizzazione, ai ruoli di madre, moglie, seduttrice etc... È questo che spesso non si vede o non si vuole vedere.
C’è un’altra questione importante, che il :pensiero della differenza ha messo in evidenza ed è una questione filosofica. Noi abbiamo lottato per arrivare a riconoscere che “l’uomo”, inteso come il neutro universale, non va bene perché è un termine che pretende di valere per gli uomini e le donne, includendo le donne nel neutro della parola “uomo”. Il lavoro del femminismo è stato quello di dire: esiste anche l’essere umano sessuato al femminile con delle sue specificità, delle sue differenze, con un portato culturale e simbolico diverso. Si tratta di dare valore e dignità a questa differenza, segnalandone l’esistenza, persino la vitalità, senza ovviamente dettare a priori i caratteri o i modi in cui questa differenza si poteva manifestare. Chi accusa il pensiero della differenza di essere “essenzialista”, cioè di porre un’essenza del femminile come normativa, mistifica la questione. Che è semmai un’altra. Il pensiero della differenza dice: c’è un essere umano che si spartisce, prevalentemente, in due sessi. Del resto, la storia del patriarcato è segnata da una certa interpretazione maschile di questa differenza. Il femminismo della differenza vuole dare un significato nuovo a questa differenza, che valorizzi le donne, ma che smascheri anche la pretesa del termine “uomo” di parlare per entrambi i sessi. La logica filosofica dell’Occidente invece non accoglie questa originarietà del due: “Se all’Uomo con la maiuscola si aggiunge la donna, allora perché non aggiungere anche altri?”. Come se, in altre parole, l’emergere della differenza aprisse a infinite differenze. Come se questa rottura dell’uno portasse immediatamente all’apertura ai molti, e l’esito di questa operazione concettuale è una nuova cancellazione della donna come umano originario.
Inoltre, nella dialettica uno-molti la donna viene assimilata alle minoranze sessuali o a una categoria sociale, e questo è sbagliato. La portata radicale del pensiero della differenza, che non è un pensiero sociologico, bensì filosofico, sta proprio qui: c’è un’originaria differenza di corpi. Questo è un fatto anatomico, fisiologico, ormonale, ma non si tratta di definire con riduzionismo biologista l’umano a partire da questa differenza, ma nemmeno negarla. Si tratta di una differenza che è anche simbolica e culturale. Il problema è come dare significato a questa differenza in maniera non patriarcale. Il patriarcato ha sempre dato significato a questa differenza sessuale: le donne sono subordinate agli uomini, fanno i figli, sono impolitiche... La sfida femminista era volta a far sì che questa differenza significasse in maniera diversa.
Adesso noi vediamo arrivare al pettine tanti nodi perché quella differenza sessuale alla fine non è mai stata accettata fino in fondo. Il pensiero Lgbtq in qualche modo vuole superare questa originarietà del due e appunto dire che ci sono i molti; maschile e femminile, l’originario spartirsi in due sessi, sarebbe in realtà una imposizione eteronormativa, che quindi opprime e normalizza chi non si riconosce in questa dualità. Da lì si arriva a postulare la categoria di queer, che è ciò che appunto non si conforma al binarismo dei sessi. A mio avviso, il problema di questa posizione è che nel voler liberare le minoranze sessuali dalla discriminazione -cosa giustissima, per altro- finisce per cancellare non tanto l’uomo, categoria che anche le femministe volevano mettere in discussione, ma soprattutto la donna. Questo lo si vede nelle operazioni linguistiche che vogliono adottare, l’asterisco o la schwa o l’espressione “persona con utero” anziché donna.
Ora non è che le femministe siano delle bigotte. La rivolta delle femministe vecchio stampo o terf, come ora vengono chiamate, non è certo contro le pratiche sessuali non eterosessuali, ma contro la cancellazione delle donne!
In effetti anche il ddl Zan metteva assieme donne e disabili...
Esatto. È come se non fossimo mai usciti dal neutro universale. Gli effetti di quella impostazione sono ancora molto visibili: vige un modello di umano che non viene minimamente scalfito dal fatto che tutto quello che non è a esso riconducibile sia minoranza.
Ripeto, una delle sfide del pensiero femminista, dal punto di vista filosofico, era mettere in crisi un certo modello di soggettività e far emergere la legittimità teorica di altri modelli di soggettività: relazionale, dipendente, eccetera e non sempre e solo l’indipendenza, l’autonomia, la razionalità. Invece è come se fosse stato codificato solo quello come modello legittimo, sovrano.
La maternità in questo quadro che fine fa? Emerge quasi un’avversione anche per questa parola...
Il femminismo nelle sue molteplici forme ha avuto sempre un rapporto ambiguo con la maternità. Per molte femministe l’idea era: solo se superiamo questo “destino biologico” -per citare Simone de Beauvoir- saremo veramente libere. Questa è stata la posizione di molta parte del femminismo, anche radicale. Poi invece, sempre dentro al femminismo, per dire quanto ricca è questa galassia, ci sono state importantissime teorizzazioni sulla maternità, a partire dal testo di Adrienne Rich Nato di donna,del 1976, dove l’autrice fa una distinzione fra la maternità come istituzione e la maternità come esperienza. Attraverso una ricostruzione della storia della maternità, ma anche attraverso un processo di presa di consapevolezza di sé, come donna, femminista. Ecco, Rich dice: dobbiamo mettere in discussione l’istituzione patriarcale della maternità, riappropriandoci invece dell’esperienza esclusivamente femminile della maternità. Lo dice una donna che è sia madre sia severa critica del patriarcato e teorizzatrice del pensiero lesbico.
A partire da Rich c’è tutto un filone che valorizza la maternità come esperienza femminile. Questo è un elemento importantissimo del femminismo. Proprio quando negli anni Settanta la maternità non diventa più un destino ma una scelta o appunto un percorso di libertà, c’è la possibilità di attribuirle altri significati.
Dalla valorizzazione dell’esperienza della maternità in chiave femminista emergono successivamente interessanti filoni di pensiero che tematizzano la relazionalità originaria di ogni essere umano, la sua originaria vulnerabilità e quindi la necessità di pensare l’etica della cura.
Molta riflessione contemporanea su vulnerabilità, cura, relazione scaturisce dalla riflessione femminista.
Il tentativo del pensiero della differenza ma anche di parte del femminismo radicale degli anni Settanta è stato quello di riappropriarsi della maternità come esperienza incarnata, vissuta, reale e concreta.
Adesso invece siamo arrivati all’aberrazione di chiamare la maternità “gestazione”, un’operazione linguistica per cui l’esperienza della maternità, cioè dell’avere nel proprio corpo una forma di vita che poi diventa un essere umano, viene definita con un termine medico, scomponendo il processo di creazione della vita in varie fasi, così da smantellare del tutto l’esperienza complessiva della maternità, che non è solo biologica o ormonale.
Qui si apre tutta la questione del dibattito sulla gestazione per altri, detta anche maternità surrogata o utero in affitto.
Quello che personalmente trovo davvero triste è questo. I dispositivi tecnologici e scientifici sembrano oggi inarrestabili, per cui sinceramente penso che sia difficile fermarli, o che sia per lo meno complicato. Ciò che mi stupisce e che mi delude è che una parte della sinistra assuma in maniera del tutto acritica questa stessa direzione, presentandola come un’esperienza di libertà o di diritti.
È chiaro, ad esempio, che la chirurgia plastica, la possibilità di modellare il proprio corpo, anche senza parlare di transizione sessuale, è un segno dei nostri tempi. Però non penso che sia una battaglia di sinistra potersi rifare il seno, le labbra o gli zigomi. Come mai invece è diventata una battaglia di sinistra quella di assecondare questi dispositivi, e il mercato che c’è dietro, facendola passare per qualcosa di progressista, in materia di maternità surrogata? Questo per me è un grande mistero. Soprattutto perché ci sono interessi economici e processi di sfruttamento molto evidenti nei mercati della gestazione per altri e l’argomento contrario che la ammette, ma solo nella forma del dono, mi sembra una grande ipocrisia. Non puoi donare un altro essere umano; è come trasformare l’essere umano in un oggetto che tu produci e doni a qualcun altro. Filosoficamente è molto problematico: si può decidere di produrre un essere umano per donarlo?
Su questo riflette in maniera filosoficamente interessante Alessio Musio sulla rivista “Vita e Pensiero”, affermando che “se ogni persona può sempre donare qualcosa di sé, questa facoltà di dono non può estendersi al dono di un’altra soggettività (il figlio). A poter essere donate sono solo le cose e non le persone”. Questa è un’importante riflessione sul piano etico che almeno segnala un problema piuttosto grande. Nel dibattito si fa tanto parlare del benessere di bambine e bambini nati dalla surrogazione, nei cui confronti chi vuole vietare la surrogata non ha alcun rispetto. Eticamente però, bisognerebbe chiedersi che rispetto hanno per i bambini e le bambine coloro che li commissionano ad altri o se li fanno “donare”? Quale rispetto per chi è coscientemente progettato per essere donato o venduto? Mi sembra tutto incongruente, se non folle.
Io trovo lo stesso processo linguistico che sostituisce maternità con “gestazione” molto violento: non si parla più della madre, ma della portatrice, della donatrice di ovuli... Una nuova cancellazione delle donne e della loro esclusiva potenzialità generativa: mi pare che si compia qui una nuova ingiustizia storica. Io penso a tutte le donne del passato che hanno lottato per veder riconosciuta la propria esistenza, la propria identità. È come se adesso con un colpo di spugna tutto venisse cancellato.
E badate bene, non è solo una questione dei cattolici, interessati ovviamente all’aspetto etico, e nemmeno una questione del femminismo “eterosessuale”. È interessante, infatti, che siano le lesbiche le donne che più soffrono di questa cancellazione. Anche in Italia la posizione di Arcilesbica rispetto sia all’identità di genere sia alla maternità surrogata è molto chiara, molto forte e ha avuto un ostracismo pazzesco da parte di tutto il movimento Lgbt.
C’è questo bellissimo libro di Arcilesbica, Noi le lesbiche, Preferenza femminile e critica al Transfemminismo (Il dito e la luna, Milano, 2021) un testo sia teorico che di racconto di come sono andate le cose dentro il movimento dopo la grande battaglia per le unioni civili. Il fatto che sin dal giorno dopo si sia subito passati a discutere del tema della maternità surrogata è stato vissuto come una profonda violenza dentro il movimento.
Come si spiega?
Carla Lonzi negli anni Settanta scrive contro un femminismo dell’uguaglianza e della parità perché in quella operazione dell’emancipazione lei vede una trappola di assimilazione. Alla fine per avere gli stessi diritti degli uomini o di un ipotetico soggetto neutro dobbiamo in qualche modo rinunciare a essere donne, diventare come i maschi. Questo processo di assimilazione è un processo di cancellazione della differenza ed è esattamente quello che avviene adesso per esempio in queste operazioni linguistiche, dove la parola donna viene rifiutata perché ritenuta non inclusiva.
Anche qui c’è un ritorno. C’è di nuovo un fastidio per la differenza femminile, per la differenza sessuale e quindi una sua neutralizzazione proprio nel doppio senso di neutralizzazione linguistica ma anche di neutralizzazione politica.
Fino a che le donne sono soggetti vulnerabili, deboli, da tutelare, rientrano cioè nel paradigma familiare di una “minoranza”, allora va bene parlare di violenza contro le donne o di ingiustizia e discriminazioni. Se invece le donne vogliono essere riconosciute come soggetto alla pari degli uomini, nella loro differenza, ecco che questo non va più bene e all’improvviso la donna diventa un soggetto che esclude altri soggetti!
Se ci pensate è curioso. Qui ci sono tanti cortocircuiti anche dal punto di vista concettuale. Questo lo dico spesso alle mie studentesse con cui ho sovente delle discussioni. Loro sarebbero più orientate verso una prospettiva diciamo queer, le nostre discussioni sono spesso molto accese e interessanti, istruttive anche per me.
Se mi limito a raccontare in classe il percorso di discriminazione subìto dalle donne nella storia, le ingiustizie nei loro confronti, eccetera, loro mi seguono con interesse ed entusiasmo. Se però faccio un discorso più “positivo” sulle donne, in un’ottica del pensiero della differenza sessuale, affermando che c’è una differenza femminile che va valorizzata, subito si ritraggono, diventano sospettose, perché interpretano la differenza sessuale come una sorta di essenzialismo. In realtà il femminismo della differenza non fa un discorso essenzialista.
Anche questo è interessante: nella riflessione anglo-americana si tende a intendere la differenza sessuale solo come differenza biologica, come qualcosa, appunto, di corporeo, biologico, e quindi muto e da superare. Mentre il pensiero della differenza sessuale, come ho già detto, è all’incrocio fra il materiale, il corporeo e il culturale o simbolico e una delle sue sfide è dire: proviamo a pensare questa differenza sessuale al di fuori di come il patriarcato l’ha pensata.
Dal punto di vista filosofico questo è un percorso che è stato iniziato ma che non si è concluso. La differenza sessuale non è qualcosa che si possa stabilire una volta per tutte a priori, su cui dettare un dogma, una norma. L’assunto di base è quello di un’apertura che deve costantemente essere riempita di significati, a partire però da un’incarnazione corporea in un corpo sessuato, a partire da una spartizione nei due sessi del maschile e del femminile e dove ciascun sesso dovrebbe pensarsi a partire dalla sua parzialità, non da un’ipotetica universalità. È una critica al modello neutro universale che tutto ingloba.
Questa idea di una parzialità che però è radicata in un corpo e in una differenza è secondo me un punto di partenza molto proficuo, che permette di fare molte cose: per esempio, di non ridurre il femminile alla sua differenza biologica, ma nello stesso tempo di non cancellare quella differenza biologica, di non far finta che non ci sia. È un processo che merita di essere ulteriormente esplorato. Proprio per aprire quel significante donna a una libertà che io ancora non vedo. Vedo piuttosto ritornare prepotenti gli stereotipi. Anche in questa apparente apertura di tutti i sessi e tutti i generi, è come se ci fosse una specie di strana nostalgia o attaccamento a una definizione rigida di che cosa è una donna. Come se ci fosse il bisogno di stabilire che cos’è una donna in maniera ferma e stabile, per poi rifiutare dal punto di vista della fluidità e del queer proprio quel femminile stereotipato. Si tratta però, questo il paradosso, di un femminile molto patriarcale, come se il femminismo non ci fosse stato.
Spesso i soggetti che animano le manifestazioni diciamo queer condividono la lotta per l’ambiente. Vorrei introdurre il tema del limite. Abbiamo pensato che grazie alla scienza e alla tecnologia si potesse abbattere qualsiasi limite e proprio la crisi climatica ci ha fatto prendere coscienza della situazione. Di là si parla però di rivoluzione contro la natura, quindi di abbattimento dei limiti. Non c’è una specie di delirio di onnipotenza in questo affidarsi alla scienza e alla tecnologia in nome di un’ansia di liberazione. Sembra tutto paradossale...
Ho letto di recente una recensione all’ultimo libro del filosofo Paul B. Preciado e riflettevo sul fatto che molto spesso questa messa in discussione dei ruoli tradizionali di genere o delle identità di genere in alcuni di questi teorici è affiancata a una critica ai modelli di sviluppo della società occidentale e quindi alla crisi climatica. Anch’io vedo qui una forte contraddizione. Come puoi condurre in maniera così esasperata la tua battaglia contro la “natura” che hai dentro di te, e di cui noi siamo delle specificazioni, e simultaneamente lottare per il rispetto della natura? Come conciliare una battaglia tutta concentrata su di sé, sulle proprie preferenze e desideri, sulla propria auto percezione con una che invece punta a mettere da parte se stessi per occuparsi del mondo?
Questa dimensione del limite appare assolutamente cancellata, negata quando si tratta del quadro biologico dentro il quale ci troviamo a essere. Insomma, critichiamo il turbocapitalismo che sfascia il pianeta ma contemporaneamente smantelliamo la natura che noi siamo. Mi pare piuttosto contraddittorio.
C’è una frase di Hannah Arendt che mi ha sempre colpito molto. Riflettendo sul suo essere ebrea e donna lei scrive: “Provo una fondamentale gratitudine per ciò che è dato” (for what has been given). “Ciò che è dato” nel senso di qualcosa che tu non scegli.
La fondamentale gratitudine per ciò che è dato secondo me ha a che fare proprio con questa percezione di un limite, del fatto che c’è qualcosa che ti eccede, che non puoi determinare volontaristicamente. La vicenda umana è anche un percorso, un venire a patti -spesso lungo e doloroso- con questo nostro essere così e non altrimenti. Qui emerge invece una rimozione, una non accettazione di sé.
Carla Lonzi, nei suoi testi, parla di una “accettazione di sé” da parte delle donne che non vuole naturalmente dire una supina sottomissione ai ruoli, ma un’accettazione di sé come primo passo per un percorso di libertà femminile.
Quello che io osservo tristemente oggi è che spesso sono le ragazze più giovani a non accettare questa loro datità. È come se il femminismo, per certi versi, non fosse accaduto; persistono dei forti stereotipi femminili a cui le ragazze sentono di doversi adeguare o di non potersi per niente adeguare. L’esito è che rifiutano il femminile in blocco. Come se femminile volesse dire essere solo quella cosa lì.
L’aumento, repentino e imponente, del numero delle transizioni da femmine a maschi registrato negli Stati Uniti, mentre nel passato il fenomeno, molto contenuto, riguardava il processo inverso, sembra segnalare un disagio prettamente femminile. Questa disponibilità a dar via la parola donna tradisce forse la difficoltà che le giovani donne incontrano nell’essere se stesse? Il venir meno del vecchio ordine e l’assenza di uno nuovo crea una situazione complicata, anche dolorosa.
Temo sia proprio così. Si rifiuta la parola donna perché la si percepisce ancora legata alla sua versione patriarcale, come ho già detto. In qualche modo è anche un fallimento del femminismo. Il femminismo della parità, dell’uguaglianza ha una forte carica assimilazionista, per cui se tu donna vuoi la parità, ti assimili a un modello maschile, quindi aggressivo, competitivo oppure iperseduttivo e tutte quelle forme di femminilità o di essere donna che non si adeguano vengono ritenute fallimentari, residuali. Intendiamoci, anch’io volevo essere un maschio quando avevo dieci anni, anch’io facevo resistenza a che questo corpo prendesse una forma che mi impediva una certa libertà, eccetera.
Ecco, questo complicato processo di soggettivazione che si attraversa nella fase in cui si assumono i caratteri sessuali maschili o femminili una volta non aveva immediatamente a disposizione la possibilità del rifiuto di una cosa e l’assunzione di un’altra. Adesso invece c’è anche questa nuova merce -perché dobbiamo dirlo che è una nuova merce- e quindi: perché no?
Oggi si definiscono “maschi trans” persone che una volta sarebbero perfettamente rientrate nell’estetica della lesbica butch, donne ipermascolinizzate. Qual è il problema di vivere il proprio essere donna nelle forme di un’estetica più mascolina e di un rapporto lesbico?
Ero convinta che il femminismo, e con esso l’epoca della cosiddetta liberazione sessuale, ci avesse insegnato che ciascuna/o può vivere la propria sessualità come vuole, senza però trasformare questa libertà in un nuovo conformismo queer. Invece adesso c’è proprio questo bisogno di incasellare la soggettività in una nuova identità, quella appunto di maschio trans. Io qui di nuovo vedo il rifiuto di volersi dire donna.
Ora, io non so se sia un effetto di quel contagio sociale di cui parla anche Kathleen Stock, di questa omologazione, di questo conformismo che vale dentro i movimenti come in tutte le altre parti della società. Però per me è significativo il fatto che il fenomeno riguardi soprattutto le ragazze adolescenti.
D’altra parte, io non vivo a New York e non vivo neanche a Milano; la provincia italiana è ancora estremamente rigida dal punto di vista dei ruoli di genere. Se vai all’uscita di una scuola, sembra siano tutte ragazze madri! Non vedi mai un padre; nel giro di cinque anni ne avrò visti un paio; sono figure inesistenti. C’è una persistenza nella società italiana di questo modello patriarcale. Io invece sono favorevolissima all’interscambio dei ruoli di genere dentro la famiglia: è l’elemento fondamentale per la libertà delle donne e anche dei figli francamente. Qui invece siamo ancora molto arretrati.
Contemporaneamente si assiste a una maggioranza di situazioni estremamente tradizionali e poi queste schegge di posizioni iper radicali che però non impattano realmente sulla vita della maggioranza delle persone, soprattutto delle donne. C’è ancora molto lavoro da fare in questo senso.
Le attuali forme di lotta di questi movimenti ricalcano quelle degli anni Settanta: c’è un’aggressività, una violenza, per ora prevalentemente verbale, ma che può produrre appunto licenziamenti, ostracismi eccetera; una violenza che nella storia è tipicamente maschile: pubblicare il nome, l’indirizzo, quest’ansia quasi di linciare, per quanto non fisicamente, chi la pensa diversamente fa pensare a una sorta di rivincita, a un’ondata sotterranea di maschilismo... c’è qualcosa che ritorna.
È vero ed è un elemento molto interessante. Anche nel movimento “Non una di meno” si riscontrano delle modalità, anche estetiche, di lotta reminiscenti degli anni Settanta. È come se non ci fosse stata alcuna evoluzione rispetto a come si interpreta il radicalismo di una battaglia.
È come se anche questo aspetto del femminismo, con le sue forme di ironia, non violente, fosse stato dimenticato. Riemerge la matrice di una tradizione che ha i suoi miti e suoi mitologemi e che continua a essere richiamata - una matrice bellicista. Il manifesto fatto contro Kathleen Stock è tremendo e mi ha fatto molta impressione, un attacco così ad personam... queste forme di linciaggio sono effettivamente molto maschili. D’altra parte, continua a sembrare più “cool”, più radicale adottare quei metodi invece di cercarne altri.
Devo dire che sui social vedo che molte femministe della generazione precedente assumono posizioni vicine al movimento Lgbt, con argomentazioni talvolta un po’ fumose. A sinistra continua a funzionare questo spettro di essere assimilati alla destra, e allora, anche forse per continuare a cavalcare la radicalità del movimento, si accettano posizioni che un tempo si sarebbero rigettate, come nel caso della maternità surrogata.
Ora, la gestazione per altri non è una questione esclusivamente maschile però è fuor di dubbio che una genitorialità lesbica e una genitorialità gay non sono la stessa cosa. C’è una differenza sessuale anche nell’omosessualità che sarebbe così ipocrita, così fittizio non riconoscere.
Pensiamo alla differenza -anche qui sessuale, biologica- tra la donazione di sperma da parte di un uomo e invece la donazione di ovuli da parte di una donna. Le donne che donano i loro ovuli devono essere sottoposte a terapie ormonali per farne aumentare la produzione e poi l’estrazione è molto più invasiva rispetto alla raccolta dello sperma. Tra l’altro l’eiaculazione, come ricorda Carla Lonzi, corrisponde al momento del piacere del maschio mentre per la donna piacere e fecondazione non sono così strettamente legati.
Non voler riconoscere o voler dissolvere queste differenze anatomiche in un discorso giuridico o appunto neutralizzante di “genitorialità”, a mio avviso, oltre a essere violento è proprio falsificante.
Voglio aggiungere un’altra considerazione. Quando parliamo di sessualità, intesa sia come pratica sessuale sia come esistenza sessuata, non stiamo parlando di cose astruse, e come studiosi e studiose non stiamo trattando di un manoscritto del quinto secolo, stiamo invece parlando di tematiche che riguardano le vite di tutte e di tutti, questioni concrete in cui tutti possono riconoscersi. Quanti significati ha una parola come genere o gli avverbi e gli aggettivi derivati da questo sostantivo?
Per questo è così importante che questi dibattiti escano dall’accademia e che si faccia un po’ di chiarezza, anche teorica, concettuale, su queste questioni.
(a cura di Barbara Bertoncin e Gianni Saporetti)
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