Siegfried Kracauer (1889-1966), “francofortese” periferico, di vari anni più anziano sia di Horkeimer che di Adorno, e vissuto più a lungo di loro negli Stati Uniti come studioso di cinema, esordì nel 1922 con un libro sulla scienza sociologica, a cui seguì nel 1930 il molto notevole benché breve saggio Gli impiegati. Quest’ultimo fu tradotto e pubblicato da Einaudi a cura di Luciano Gallino nel 1980, quando in Italia e non solo si discuteva con nuovo interesse di classe media, in crescita dovunque, e sempre più politicamente e culturalmente rilevante. Già Pasolini, a metà degli anni Settanta, aveva individuato quella che chiamò una “mutazione antropologica” responsabile della sparizione non solo di una plurisecolare civiltà contadina, ma della stessa classe operaia moderna, nonché del sottoproletariato, ormai privi delle loro precedenti identità culturali. In Italia, Alessandro Pizzorno e Paolo Sylos Labini pubblicarono saggi sui ceti medi e sulla loro influenza nei meccanismi del consenso politico, mentre in Germania la rivista “Kursbuch”, diretta da Hans M. Enzensberger, pubblicò nel 1976 un numero monografico dedicato alla piccola borghesia di nuovo emergente. Non posso nascondere che anche io pubblicai nel 1986 una serie di saggi, più letterariamente satirici che scientifici, in un pamphlet intitolato L’esteta e il politico. La nuova piccola borghesia e il suo stile, una nuova e più estesa classe sociale che in quel decennio divenne protagonista, con la generale e veloce liquidazione delle precedenti prospettive “rivoluzionarie” che avevano occupato il ventennio 1960-80.
Il saggio di Kracauer sugli impiegati, tradotto in Italia proprio nel 1980, aveva come sottotitolo “un’analisi profetica della società contemporanea” per la collana Il Nuovo Politecnico diretta da Giulio Bollati.
Diventava sempre più attuale in Italia la formazione di una nuovamente estesa middle class, che quasi all’improvviso, in apparenza, metteva in crisi la “nuova sinistra” che in precedenza si era voluta “rivoluzionaria” rileggendo Marx e il marxismo degli anni Venti, Rosa Luxemburg, Lukàcs, Korsch. Il saggio di Kracauer sugli impiegati, uscito nel 1930, analizzava la cultura, la psicologia, le incertezze e le ansie dei nuovi ceti medi in Germania. Sia Adorno che Benjamin consideravano Kracauer una specie di sociologo dilettante e un “nemico della filosofia”. Ma l’originalità e il talento di Kracauer erano anche il frutto di questi limiti. Più che alle teorizzazioni Kracauer voleva guardare “alle cose stesse”. E questo lo portò a descrivere empiricamente e anche narrativamente, come dice Luciano Gallino, “la dolorosa normalità delle nuove classi medie, né dirigenti né operai, non più piccoli proprietari o professionisti, non ancora alti burocrati ma nemmeno semplici scrivani: semplicemente coloro che non essendo né base né vertice della piramide sociale, non hanno neanche diritto a un nome, perché gli impiegati stanno in mezzo, ma guardano verso l’alto”.
Nella sua stessa premessa del gennaio 1930 Kracauer aveva scritto che il suo lavoro era “una diagnosi” che non aspirava a essere “una qualche teoria”, si limitava soltanto a presentare descrittivamente “casi esemplari della realtà”. Del carattere narrativo della sua sociologia Kracauer era pienamente consapevole, se il suo saggio si apre con queste parole di una impiegata incontrata per caso in treno, e a cui aveva chiesto di raccontagli la sua vita in ufficio: “Ma c’è già tutto nei romanzi”, e si affrettò subito dopo a dirgli delle frequentazioni serali con il suo principale, proprietario di una fabbrica di saponi, uno scapolo che ammirava molto i suoi begli occhi. La ragazza era la segretaria del principale, aveva un fidanzato, al quale però si guardava bene dal rivelare la sua relazione. Il commento di Kracauer è questo:

Non c’è tutto nei romanzi, come crede la segretaria privata. Proprio su di lei e su coloro che sono in condizioni simili alle sue è quasi impossibile avere informazioni. Ogni giorno centinaia di migliaia di impiegati popolano le strade di Berlino, eppure la loro vita è più sconosciuta di quella delle tribù primitive [...]. Solo di rado i sindacalisti degli impiegati guardano, al di là del dettaglio, alla costruzione della società. In genere gli imprenditori non sono affatto testimoni imparziali. E gli intellettuali o sono essi stessi impiegati, oppure sono liberi, e in questo caso di solito trovano l’impiegato poco interessante, dato il carattere banale e routinizzato della sua esistenza. Anche gli intellettuali radicali non vanno facilmente oltre la facciata della vita quotidiana. E gli stessi impiegati? Hanno meno che mai coscienza della loro situazione [...]. È vero che sono all’opera poderose forze che vorrebbero impedire che ci si accorga di qualcosa. Eppure sarebbe ora che la luce della coscienza pubblica cadesse sulla pubblica situazione degli impiegati, cambiata radicalmente rispetto al periodo prebellico. Già da un punto di vista quantitativo [...] nello stesso periodo il numero degli operai non è neanche raddoppiato, quello degli impiegati si è quasi quintuplicato [...]. Le cause di questo aumento possono essere ritrovate negli scritti specializzati. In sostanza sono legate alle trasformazioni strutturali dell’economia. Lo sviluppo della grande impresa moderna, accompagnata dalla trasformazione della sua forma organizzativa, la crescita dell’apparato di distribuzione, l’estensione dell’assicurazione sociale e delle grandi organizzazioni sindacali che regolano la vita collettiva di numerosi gruppi [...]. Il particolare fenomeno per cui tante donne sono confluite nel lavoro impiegatizio può essere spiegato con l’aumento dell’eccedenza femminile, con le conseguenze economiche della guerra e dell’inflazione, e con il bisogno di autonomia economica che è proprio della nuova generazione femminile. (pp. 8-9)

Il capitalismo si è razionalizzato soprattutto dal 1925 al 1928 e negli uffici sono entrate le macchine e i metodi del “nastro trasportatore”. Anche in Germania si è fatta sentire l’“americanizzazione”, per cui le nuove “masse impiegatizie” sono formate da una quantità di impiegati non qualificati che sono addetti a un’attività meccanica. È comparso un diverso tipo di “schiavizzazione” che ha portato alla “proletarizzazione degli impiegati”. Da questo dipende il fatto che per migliorare le loro condizioni di lavoro il trenta per cento degli impiegati si sono organizzati sindacalmente.
La trasformazione ha un generale carattere anche socialmente, fisicamente percepibile nell’aspetto della grande città moderna. E Kracauer ricorda che già Sombard aveva osservato che anche le grandi città tedesche, più che essere città industriali, sono città di impiegati pubblici e privati. Soprattutto Berlino ha “una cultura spiccatamente impiegatizia, fatta da impiegati per un pubblico di impiegati, e che la maggioranza degli impiegati considera cultura. È nata la moda del weekend che non ha più niente a che fare con le tradizioni del passato: c’è una fame di immediatezza che è senza dubbio la conseguenza del digiuno provocato dall’idealismo tedesco. All’astrattezza del pensiero idealistico, incapace di nutrirsi di fatti reali, viene contrapposto il reportage. Cosa che ha influenzato perfino i poeti, la cui maggiore ambizione è quella di riferire su fatti osservati”.
Del resto, è lo stesso Kracauer che preferisce il reportage alla teoria, nella sua analisi documentata di un ceto impiegatizio precedentemente inesistente. Altro fenomeno tipico di questo nuovo ceto è la “corsa alle scuole superiori” che non ha niente a che fare con l’amore della conoscenza e della cultura: “Lo stesso spirito economico, che organizza l’azienda in modo sempre più razionale, produce senza dubbio anche uno sforzo di razionalizzare in modo sempre più perfetto la massa finora informe e disorganizzata degli individui”. Nei centri di “orientamento professionale” si usano i test attitudinali. Non si considerano gli individui, si lavora alla selezione esclusivamente in base a una cosiddetta psicologia del lavoro:

Ogni candidato deve riempire un questionario (...) le telefoniste e i candidati per la sezione propaganda sono oggetti della psicotecnica. Il grafologo a cui è affidato tale incarico penetra nell’anima degli impiegati allo stesso modo che una spia del governo entra in un paese nemico (...) E dunque il crescente uso di metodi di ricognizione psicologici al servizio di una maggiore razionalità economica è anche, infine, il sintomo della reciproca estraneità che il sistema dominante crea fra i datori di lavoro e numerose categorie di impiegati. (pp. 19-20)

Una tale razionalizzazione è accompagnata dall’idea di “fare come gli americani” anche in Germania, curando il lato estetico. Per entrare fra gli impiegati di una grande impresa si richiede al candidato di avere anche “una faccia simpatica”. Si diffonde perfino “una corsa ai numerosi istituti di bellezza”. Nella paura di essere “dichiarati fuori uso come merce invecchiata, uomini e donne si tingono i capelli e i quarantenni fanno sport per mantenersi snelli”.
L’economia impone la moda, e la pubblicità che compare sui giornali insegna come “apparire giovani e belli subito e a lungo”. Il lavoro meccanico si diffonde soprattutto nelle grandi banche e altre grandi aziende grazie all’elaborazione meccanica con schede perforate. Si pretendono due cose fra loro contraddittorie: prima si razionalizza il lavoro nelle aziende e poi si cerca di creare nel luogo di lavoro quel buon umore che la razionalizzazione ha reso impossibile. Il lavoro reso monotono fa soffrire alcuni e fa sentire bene altri. Comunque tutto in ufficio viene organizzato con l’applicazione delle macchine, ma i diversi sindacati “hanno imparato dalla storia dei movimenti sociali che nulla sarebbe più sbagliato di un comportamento luddistico” e affermano che “la macchina deve essere uno strumento di liberazione”. Una frase, questa, che gira nelle riunioni nonostante sia “consunta e più patetica che mai”.
Tutto questo provoca miserie, sofferenze, senso di smarrimento, attese senza esito e infine disperazioni che a volte possono portare anche al suicidio, dopo che non si è riusciti più a trovare lavoro grazie agli uffici di collocamento, e nonostante i sussidi di disoccupazione. Una volta anziani, agli impiegati licenziati succede che non se la sentano di continuare a vivere e “alcuni alla fine aprono il rubinetto del gas”.
Le conclusioni di Kracauer sono dedicate al rapporto fra lavoro impiegatizio, esistenza dei singoli e rapporto di questo ceto con la cultura come risarcimento e consolazione:

“Poiché oggi la professione non procura più nessun piacere
-osserva parlando con me il segretario di un libero sindacato di impiegati- bisogna portare alla gente dei contenuti dall’esterno” [...]. Tra questi rimedi ci sono l’arte, la scienza, la radio e naturalmente lo sport. E tuttavia l’idea che l’inaridimento causato dall’attività lavorativa sia diminuito se si danno agli impiegati contenuti validi, per il loro tempo libero, non è affatto priva di problemi. Procedere in questo modo equivale a tendere un cordone intorno al lavoro meccanizzato, come se si trattasse di una zona di infezione epidemica [...]. Le sue conseguenze dannose non possono essere attenuate da una coscienza che ne distoglie lo sguardo, ma solo da una coscienza che comprenda in sé anche le ore di lavoro [...]. L’opinione secondo cui gli svantaggi della meccanizzazione devono essere eliminati con l’aiuto di contenuti spirituali che vengono infusi come medicina è a sua volta ancora un prodotto della reificazione contro i cui effetti è diretta. Si basa sulla concezione per cui i contenuti culturali possono essere somministrati belli e fatti, che possono essere forniti a domicilio come merci. (pp. 107-108)

È quella che anche negli ultimi decenni del Novecento è stata l’acculturazione della classe media, o nuova piccola borghesia: un’acculturazione attraverso “dati culturali belli e fatti”, valori di cultura come eccitanti o tranquillanti. Negli anni in cui scriveva Kracauer il rimedio all’aridità meccanizzata del lavoro erano i prodotti della prima industria cinematografica, che contribuiva a stordire la massa con l’artificiale splendore delle apparenti vette della società. Al cinema si aggiungevano i giornali illustrati, con gli stessi tipi di immagini. E poi lo sport, la cultura fisica, il weekend. I ceti medi sentono il bisogno di “distinguersi dalla massa” pur facendone parte, e per questo guardano ipnotizzati non più in basso e a sé stessi, ma in alto, verso le élites e verso quello che appare loro come un superiore stile di vita. Eppure, nonostante questo, fra gli impiegati “alcuni restano insicuri per tutta la vita” scrive Kracauer “come quella segretaria perfettamente piccolo-borghese di mia conoscenza che cerca di simulare una certa comprensione degli usi di mondo introducendo continuamente nei suoi discorsi un well, preso dal vocabolario delle persone di successo”.
E ora? Provate a vedere voi se dopo un secolo è cambiato qualcosa.