Ho avuto la fortuna di conoscere Francesco alla fine degli anni Sessanta, alcuni mesi prima che venisse a lavorare all’Einaudi, quando era ancora un redattore della Boringhieri. Eravamo all’Unione culturale di via Cesare Battisti, in una sala gremita, ma non ricordo per quale occasione (forse uno spettacolo del Living Theatre). Nel dibattito intervenne un giovane magro lievemente ingobbito, dagli occhi vivacissimi, che diceva in modo sofferto cose intelligenti, non ovvie: era Francesco. Simpatizzammo subito e nacque presto un’amicizia fraterna che è durata più di mezzo secolo e mi ha arricchito come poche altre.
Quando fu assunto all’Einaudi cominciammo a lavorare nella stessa stanza. Francesco leggeva moltissimi libri, non solo di argomento scientifico, e ne riferiva alle riunioni del mercoledì. Era bravissimo anche nel rivedere e correggere traduzioni scadenti o sciatte e spesso mi aiutava. Il ricordo più bello di questo nostro lavoro in comune fu la revisione radicale, quasi un rifacimento, di Lavoro e capitale monopolistico, l’eccellente libro di Harry Braverman che meritava a nostro avviso una traduzione adeguata. Anche la frequentazione amicale che Francesco ebbe, fra gli altri, con Vittorio Foa, Augusto Graziani, Primo Levi e Italo Calvino testimonia della sua cultura, curiosità intellettuale e passione per il dialogo. (Forse non tutti ricordano che Calvino gli dedicò il lungo poscritto di un articolo su “la Repubblica” del settembre 1984: “ho letto sull’ultimo numero di ‘Linea d’ombra’ uno scritto molto bello di Francesco Ciafaloni sulla vita paesana nell’Abruzzo d’oggi”).
Una conferma straordinaria dei suoi talenti fu il ruolo che Francesco ebbe nel 1983-’84. Come rappresentante sindacale della redazione Einaudi, guidò con grande intelligenza e senso di giustizia l’attività del consiglio di azienda nella grave crisi che aveva travolto la casa editrice. Fu lui a ideare, proporre e far accettare la cassa integrazione a rotazione: quindici giorni di lavoro al mese per tutti i dipendenti. Ciò gli valse la fiducia, la stima e la gratitudine dei colleghi, anche di quelli che ancora non lo conoscevano. Fu il suo capolavoro di sindacalista e di uomo giusto. Non solo: ricordo perfettamente che Calvino si consultò a lungo con lui prima di decidere se pubblicare da Einaudi Palomar.
Ci sarebbero tante altre cose da ricordare, come la sua intensa collaborazione ai “Quaderni piacentini”, a “una città”, a “Lo straniero” e a “Gli asini”; o la sua attività nel sindacato. Altri lo faranno. Da ultimo voglio dirvi che la notte fra il 17 e il 18 giugno, poche ore prima che ci lasciasse, ho sognato Francesco. Era venuto con un’auto molto ammaccata a una strana riunione di amici, forse sindacalisti. Stava bene, indossava la sua giacca spinata, parlava come ce lo ricordiamo tutti. Ci siamo salutati affettuosamente, come vecchi amici che non si vedono da molto tempo. Volevo telefonarvi subito per dirvelo, ma il sogno è finito.
Luca Baranelli
Nelle parole di Luca Baranelli ritroviamo il Francesco che tutti noi abbiamo conosciuto in tempi più o meno lontani e che anche per me risalgono alla fine anni Sessanta con il suo arrivo a Torino dove, per aggiungere qualche annotazione personale, ricordo come portò una ventata di concretezza (cifre, percentuali, dati fattuali) nelle discussioni politiche di allora. Ricordo anche come, qualche anno dopo, con la crisi petrolifera, mi impose la lettura di un librone in inglese sull’esaurirsi dei giacimenti perché senza competenze in materia non si poteva parlarne. 
Per esperienza e formazione aveva un linguaggio e un approccio ai problemi fuori dagli schemi, rifuggiva dalle chiusure ideologiche delle appartenenze identitarie e autoconsolatorie. Guardava la società dal basso, dalle periferie, dai monti in abbandono dell’Abruzzo dove era cresciuto tra i pastori, per cercare le vie verso un mondo più giusto con la bussola di un universalismo inclusivo (di qui appunto l’accostamento spiazzante -Kant e i pastori- che scelse come titolo alla sua ricca raccolta di scritti autobiografici: mi sorprese all’inizio, quando me ne parlò e me ne stavo occupando per le edizioni Linea d’ombra, ma leggendo i testi capii che era una buona metafora della sua visione politica). Il suo lavoro con il sindacato sulla condizione operaia si estese all’attenzione ai migranti con la pratica dell’inchiesta e l’impegno contro il razzismo. Tanti i ricordi, riemersi in questi giorni, di una lunga frequentazione amicale, fatta anche di viaggi, vacanze, conversazioni con Francesco, sempre pronto a coinvolgerci nel suo inquieto interrogare il mondo. Ci sentiamo più soli pensando che non capiterà più. 
E con questo sentimento voglio concludere tornando a Luca Baranelli, che ha aggiunto al suo ricordo un messaggio autoriflessivo sul momento che stiamo ora vivendo tutti insieme. Ci ha mandato due pensieri di Leopardi, certamente consonante con Francesco nel materialismo e pessimismo combattivo che li accomuna.
Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perché ha cessato di vivere, perché ora non vive e non è. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest’ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato della vita e dell’essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto. Quanto è al presente, noi piangiamo la sua memoria, non lui. 
In verità se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell’animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro, troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove è questo: egli è stato, egli non è più, non lo vedrò più. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno mai più; ci fa piangere. 
Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri (9 aprile 1827) 
Piangiamo dunque il nostro passato, dice il poeta, la parte di noi che non c’è più. Ma una parte di Francesco resta in noi, perché siamo fatti di relazioni e dei segni (o sogni) che lasciano nella nostra memoria, a suo modo in dialogo con chi non c’è più.
Santina Mobiglia
Francesco, amico caro, ciao, sono Maria Viarengo, una delle partecipanti al progetto “Uguali e Diversi”, ricerca effettuata con l’Ires istituto di ricerche economico-sociali del Piemonte, sfociata in un libro dal titolo Uguali e Diversi. Il mondo culturale, le reti di rapporti, i lavori degli immigrati non europei a Torino.
Tu, Francesco, eri uno capace di condividere la vita con chi non ti assomigliava per cosa e per come mangiava, per come vestiva, per cosa rideva e come parlava… Imbottito di curiosità e costante nel volere sapere, conoscere, davi spazio a ognuno di noi, eri entusiasta nel dare e nel ricevere.
Ricordo e sento ancora la tua risata a singhiozzo... e la tua dialettica? Era composta di parentesi aperte e chiuse, dentro altre parentesi che si chiudevano dopo una lunga corsa. Sei stato un grande lettore e, se affrontavi un argomento, era difficile che tu stessi dentro a quello. 
Per me, le prime volte che ti ho ascoltato, starti dietro è stato difficile: quante parentesi tonde, quadre, graffe nei miei appunti! Ma poi rileggendo quello che stava fuori dalle parentesi capivo dove stavi arrivando e come stavi chiudendo il discorso.
Noi di “Uguali e Diversi” facevamo indagini sui primi sbarchi degli immigrati extracomunitari in Italia, in particolare in Piemonte, agganciavamo i nostri fratelli e sorelle, li invitavamo a farsi intervistare; erano tutti africani e un giorno tu hai detto: “Ma… e i cinesi?”. Ma quella è stata un’altra storia… Quante risate e quanta rabbia abbiamo condiviso. Mille e mille ricordi ho di te, ma ora ti ringrazio per essere stato qui con noi.
Vai, compagno Francesco! Vai, dove non lo so, e che gli antenati ti accolgano e ti riconoscano e quando sarai lì, non tralasciare di salutare per noi Starlin, Jean Marie, Heorghe, Suad Benkedim, che facevano parte della nostra ricerca e che prima di te hanno attraversato la linea della vita. 
Insieme agli amici di “Uguali e Diversi” ti auguro di continuare a fare le tue passeggiate lassù nelle preterie senza confini. Gheta imareh, Francesco
Maria Abbebù Viarengo
Francesco Ciafaloni era un abruzzese “della montagna”. Veniva dal teramano e conservò, finché poté, l’abitudine a compiere lunghe passeggiate in montagna e il Piemonte, dove si trasferì per per rimanerci, ne offriva moltissime. Si era laureato in ingegneria elettronica a Roma, vivendo negli studentati universitari, e, dopo un master in ingegneria del petrolio nella Texas University, un’università pubblica, si impiegò all’Agip nel 1961. La morte di Mattei ridimensionò le ambizioni dell’azienda e Ciafaloni la lasciò nel 1966 per lavorare nell’editoria. Lo aveva chiamato Paolo Boringhieri, attratto dalla sua cultura tecnica a vasto spettro, oltre che da un’intelligenza prontissima. Una crisi della casa editrice gli consentì di accettare un’offerta dell’Einaudi dove si occupò della “Serie politica” con Luca Baranelli, compagno di stanza e amico di una vita. Entrambi erano anche redattori dei “Quaderni piacentini”, allora nel periodo di massimo fulgore, e gli era naturale intercettare i fermenti che arrivavano dai campus americani, dalle lotte terzomondiste, dalle novità nelle scienze sociali in Italia e nel mondo, oltre a quello che ribolliva nelle nostre università (col senno di poi, non moltissimo).
Una stanza all’Einaudi (Quodlibet, 2012) è il libro che curai, firmato dall’inossidabile coppia Baranelli-Ciafaloni (per molti anni conservarono l’abitudine di telefonarsi tutti i giorni per commentare i fatti del mondo), in cui raccontano e ragionano su quell’esperienza.
Mal visti da una parte della casa editrice, perché ritenuti troppo politicizzati, godevano tuttavia della stima e dell’amicizia di Calvino, Primo Levi, Bobbio, oltre che del mitico direttore commerciale Roberto Cerati. Giulio Einaudi non li osteggiava. Entrambi appartenevano a un filone della sinistra critica che si può far risalire a Raniero Panzieri, ma furono lontanissimi da ogni estremismo. Nella crisi che mise a terra la casa editrice nel 1983, Ciafaloni coordinò una forma di cassa integrazione a turno che consentì di non interrompere la produzione. Gli storici che studieranno questa fase della casa editrice dovranno riconoscergli questo grande merito. Pur ritenendo Giulio Einaudi il massimo responsabile del disastro, conservava simpatia umana verso di lui, definendolo un “sansôssi”, un senza pensieri in piemontese (è il titolo del libro di Augusto Monti, il maestro della prima generazione einaudiana).
Francesco Ciafaloni aveva dalla sua una natura dialogante, la curiosità verso il prossimo, era nemico di ogni gerarchia, oltre a essere uno studioso empirico che macinava quella che un tempo si chiamava letteratura “grigia” per studiare le trasformazione della società. Era per vocazione dalla parte degli ultimi di cui si mise a disposizione negli anni della pensione.
Lo ricordo ai seminari dello “Straniero’” a Cenci e nelle riunioni di redazione di “una città” a Forlì, dove era il più anziano e ascoltato, ma dove soprattutto offriva ragionamenti che stimolavano ulteriori domande. A volte aveva il gusto del paradosso e altre sembrava che si perdesse in spirali logiche ma poi improvvisamente si ritrovava. Incoraggiava la discussione, mettendo in crisi il punto di vista altrui, per poi ritrovarne di nuovi in comune. Alieno da ogni vanità, era molto facile instaurare amicizia con lui. Insomma era bello passarci del tempo insieme. Era un uomo sorridente a cui brillavano gli occhi quando finalmente si poteva discutere sul serio. Io lo ricordo così.
Oggi Luca Baranelli, nel comunicarmi che Francesco non c’era più, mi ha detto che la notte scorsa lo ha sognato. E ha poi precisato: “Te lo dico da laico”. 
Alberto Saibene