Circa due anni fa, in un corso introduttivo di letteratura inglese tenuto all’Università di Ottawa, il professor David Jeffrey iniziò la prima lezione spiegando a freshmen e sophomores (termini con cui si indicano gli studenti universitari nordamericani del primo e del secondo anno) che ciò che distingue l’essere umano dagli animali è il linguaggio. Una studentessa alzò la mano e chiese di intervenire. Disse che non era vero, che anche gli animali parlano e che delfini e balene possiedono un linguaggio estremamente elaborato. Il professor Jeffrey replicò che non poteva pronunciarsi su delfini e balene ma lui era cresciuto in una fattoria e non aveva mai visto le mucche sporgersi sul pollaio e chiedersi di che cosa stavano parlando le galline.
Bisogna fare il piccolo sforzo di immaginarsi il professor Jeffrey e di sentire nelle orecchie il tono di voce con cui avrà risposto. Personalmente me lo figuro barbuto, affabile, conscio che per parlare di letteratura a ragazzi che nei quattro anni delle scuole superiori avranno letto sì e no cinque libri bisogna partire da sottozero. E la sua replica ha tutto l’irresistibile tono di quella particolare degnazione accademica che nel mondo anglosassone passa per senso dell’umorismo. Così mi è più facile capire la reazione della studentessa, che a quanto sembra si alzò infuriata, sbattè i libri su quella specie di tavolozza pieghevole incorporata in un braccio della sedia che nelle scuole americane sostituisce il banco e chiese: “E che cosa ne sa lei di che cosa si dicono le galline?”. Non si fermò lì. Accusò il professor Jeffrey di essere un arrogante “specista” (uno che crede nella superiorità di una specie sulle altre), uscì dall’aula sbattendo la porta e ritirò la sua iscrizione dal corso.
L’incidente è ormai entrato nel corpus delle leggende della political correctness, una raccolta di fioretti diabolici, di storie dell’orrore accademico, di atrocità quotidiane che professori increduli e spaventati si passano tra un consiglio di facoltà e un convegno specialistico, ognuno aggiungendo la sua variante, ognuno ricavando, dall’ultimo anello aggiunto alla catena, le sue conclusioni sulla prossima rovina dell’istruzione o sul contraccolpo autoritario che seguirà a tanta follia.
Il contraccolpo si comincia a vedere, ma più nella società che nella scuola. Cresce l’insofferenza verso una difesa dei diritti delle minoranze che spesso è solo una maschera demagogica indossata da politici opportunisti e da amministrazioni a corto di idee. Cresce l’insofferenza verso facilitazioni concesse ad alcuni gruppi etnici e che vengono avvertite dalle altre comunità come immotivati privilegi. Sarebbe ingeneroso, e anche sbagliato, far discendere la svolta reazionaria delle recenti elezioni americane, come ad esempio in California, dagli eccessi di zelo della political correctness e della affirmative action. Ma è vero che gli eccessi di zelo non sembrano trovare requie, e che spesso le forze democratiche, come dominate da un desiderio di autodistruzione, reagiscono al malcontento calcando ancora di più la mano. L’università, in particolar modo, è diventata il terreno preferito per veri e propri esperimenti orwelliani di riscrittura storica e redenzione dei comportamenti umani. Siamo testimoni della prima elaborazione dottrinale di un fondamentalismo laico prossimo venturo, e che ha forse lo scopo di costituire una versione “borghese”, per non dire “bianca”, dei fondamentalismi reali che stanno proliferando nel mondo.
E’ una strana religione, che ha sostituito il Peccato Originale con il Razzismo Originale, e in cui, invece di febbrili pastori evangelici che ipnotizzano i fedeli con la prospettiva delle lubriche tentazioni che li attendono fuori dalle porte della chiesa, abbiamo studenti, professori, amministratori di università e ministri dell’educazione che officiano autodafé collettivi in cui “maschi di razza bianca” e “femmine di razza bianca” si accusano in pubblico di essere razzisti e oppressori e soprattutto accusano di razzismo qualunque altro “bianco” che non riconosca a sua volta di essere razzista e oppressore. E la terapia proposta da questa “cultura del piagnisteo”, come l’ha definita Robert Hughes nel suo saggio The Culture of Complaint recentemente tradotto da Adelphi, è squisitamente li ...[continua]
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