Veniamo dal Messico, dallo stato del Chiapas e dai suoi villaggi indigeni abbarbicati sulle montagne. E’ da lì che il nostro viaggio prosegue lungo il filo conduttore costituito dalla presenza di abitanti che discendono direttamente dai Maya e che, in Guatemala, costituiscono quasi il 60% dell’intera popolazione.
A La Mesilla, nello spazio dove sostano gli autobus, una camionetta Ford color verde pisello sembra balzata fuori da un fotogramma di un cartone di Walt Disney. Ha un aspetto fiabesco e la sua targa di fabbricazione racconta di aver cominciato a prestare servizio in Florida, anno 1944. Sta insieme per miracolo, ha i vetri bloccati a metà, i freni sono azionati dall’autista mediante un’esile cordicella che corre sopra la sua testa, a sinistra, vicino all’immancabile altarino con la Madonna di Guadalupe. I sedili sono costruiti in modo da ospitare due persone, come si usava viaggiare forse in Florida nel 1944. Ma qui, dopo pochi metri percorsi, l’autobus inizia la serie infinita dei rallentamenti per raccogliere chiunque gli faccia cenno di fermarsi. Dopo qualche chilometro trascorso comodamente seduti ci ritroviamo ammucchiati insieme ad un numero inverosimile di persone, mentre si sente il vociare dell’assistente dell’autista che, in piedi sull’unica porta di accesso sempre spalancata, grida ai passanti la destinazione. Huchuetenango: come tutte le destinazioni visibili sugli autobus guatemaltechi viene familiarmente abbreviata e diventa Huchue. Le diverse modulazioni con le quali Huchue viene quasi cantato dall’uomo sulla porta fanno pensare ad una filastrocca, tanto il mezzo su cui siamo è irreale.
Da questa sorta di visione sonora vengo distolta da un uomo e da una donna che, dormendo, mi si accasciano addosso. Uno dei loro figli piccoli sta in piedi e mi guarda come se sapesse che mi sentirò in colpa, e non perché sono seduta. E’ il complesso tipico avvertito dai viaggiatori occidentali verso coloro che vogliono immaginare poveri ma buoni. Vero: non sopporto l’indigenismo fanatico, l’esaltazione del “buon selvaggio” e del suo mondo “innocente” da difendere contro il progresso. Credo che ci crei un piacere intenso fare retrocedere il calendario degli altri per godere dello spettacolo di popoli che immaginiamo felici nella loro essenzialità. Eppure non è semplice, una volta lì, con questa gente davanti, non provare un certo senso di disagio per il solo fatto, magari, di indossare qualcosa che si tira fuori da un sacco contenente più cose di quelle che già si hanno addosso. Prendo questo bambino e me lo accomodo sulle gambe, cercando di non attirare l’attenzione. La sovrapposizione dei corpi, il contatto fisico del quale si è continuamente partecipi, magicamente ti ammutolisce, mentre recuperi l’innata capacità di esprimere qualcosa mediante i gesti del corpo.
Viaggiamo da più di quattro ore lungo la Carretera Panamericana, una vera arteria che passa dalla cinque corsie statunitensi o argentine al percorso di montagna di gran parte del Centroamerica trasportando la linfa di tutto il continente. Attraversa i trionfanti paesaggi montani degli “Altos de Guatemala”, la regione dell’altipiano, culla della antica civiltà Maya ed attuale zona di popolamento indigeno, i cui uomini vogliono riconosciuta la discendenza dal grande popolo che si è cancellato da solo ben prima dell’arrivo dei colonialisti. D’altronde si tratta di una discendenza facile da attribuire: le facce sono le stesse di quelle che si trovano negli affreschi di undici secoli prima, perfino lo strabismo è rimasto e i bambini hanno ancora il difetto della spina bifida fino a dieci anni.
La giornata volge al termine, abbiamo cambiato tre autobus, siamo sfiniti ma ecco che, all’inizio di una discesa vertiginosa, ci appare finalmente il lago Atitlan: lo spettacolo è di una bellezza che toglie il respiro e ci sentiamo ampiamente ripagati dalla fatica fatta. Ad oltre 1500 metri di altitudine, protetto da tutti i lati dai pendii delle montagne, dominato a sud da quattro vulcani che superano i tremila m ...[continua]
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