Si è detto che anche le più pure questioni scientifiche si costituiscono intorno ad un problema metafisico e che alla fine le stesse divergenze degli scienziati sono battaglie tra filosofi. Sono tesi da considerare, ma che vanno comunque tenute presenti, non assolutamente per confondere di nuovo i piani dell’analisi, che devono invece mantenersi distinti, ma perché rivelano l’inevitabile (e utile) intreccio del sapere umano. Ecologia, bioetica umana, vivisezione animale: una congerie di problemi particolari, da affrontare con pazienza, modestia, concretezza analitica, alla ricerca di risultati umili, ma certi; o piuttosto questioni ultime, di fondo da accostare con un pensiero complessivo di una sintesi più alta? Tutte e due. Anche il più spicciolo problema ecologico suppone una concezione della natura; e trattando della natura parliamo dell’uomo. E delle sue ricorrenti tentazioni opposte di dissolversi in essa o di affermarsi prepotente al di sopra di essa. Succede così che, avvertiti e disgustati o paurosi davanti ai disastri che stiamo combinando alla terra e agli animali, riascoltiamo il richiamo nostalgico di un recupero dell’armonia originaria, la tentazione di perdersi nella con-fusione con la terra-madre. Alla ricerca del tempo perduto delle nozze di Cadmo e Armonia quando gli dèi banchettavano con gli uomini e il mistero era palese, diffuso. Alcune correnti della psicoanalisi ci hanno rivelato questo mito nascosto nel fondo dell’uomo, ancor vivo e attivo come un richiamo affascinante. La natura e l’uomo; la Madre e il figlio che non vuol crescere. Qualcuno ha scritto del ritorno delle dee madri. In tanta devozione alla natura, si dimentica che l’uomo è emerso da essa con la sua coscienza solo con pazienza, fatica, scienza. Ed anche se nel nostro tempo ci si accorge dei disastri che la sua emancipazione adolescenziale ha prodotto, invece di procedere oltre verso un nuovo rapporto adulto, maturo ed equilibrato con la natura, si vorrebbe ritornare all’infanzia. L’amore a Pan nasconde il complesso di Peter Pan. Come una legge di gravità psicologica, un’inerzia psichica di una volontà che vuol rimanere nell’inconscio; la tentazione bugiarda del “naufragar m’è dolce in questo mare” in cui si cela come un vago istinto di morte. Più difficile, ma più ricco, è invece riconoscersi con l’ultimo Jabès: “L’anima è più vasta del mondo / Noi siamo questa lacerazione”. E’ un rapporto più corretto che non nega la diversità dell’uomo e nemmeno l’afferma con l’orgoglio del potere tecnologico, proprio perché patisce la lacerazione. La nuova alleanza si stabilisce sulla Parola. Beati i miti perché possederanno la terra. Non si vorrebbe né dissoluzione nel mondo, né delirio di onnipotenza; si cerca solo una misura più giusta, un equilibrio dinamico per un uomo chiamato a custodire e coltivare la terra. Perché pareggiare tutto -uomo, natura, animali- perdendo alla fine noi stessi, quando la diversità è proprio la parola, il linguaggio che può salvare? Che può diventare poesia e cantico delle creature. Se la diversità dell’uomo può, come di fatto è avvenuto, scatenarsi in aggressività prepotente (il dolore degli animali!) può anche, come di fatto è avvenuto, maturarsi in compassione per ogni vivente. Aggressività e compassione non sono istinti (che non esistono, diceva la Heller), ma sono scelte della nostra libertà.
Sergio Sala
di filosofia e altro
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